Come vi ho raccontato altrove quest’estate ho deciso di approfondire (o addirittura cercare) la cucina della Valle Gesso. Io sono cresciuta su queste montagne, e ogni volta che su qualche libro di storia dell’alimentazione, di ricette, o di etnografia mi sono trovata davanti alla questione: « il cuneese ha un’identità culinaria precisa e definita (come ad esempio le più celebri e vicinissime Langhe)?» ho provato un classico e magistrale moto di stizza. Ma certo che Cuneo, dalle vallate alpine alla pianura intorno alla città, ha una sua gastronomia, che pur facendo parte della grande e variegata “cucina piemontese” si distingue da essa per alcune specificità interessantissime. Insomma, che domanda è? Come ogni territorio Cuneo ha le sue eccellenze, i suoi piatti tipici e le sue inossidabili tradizioni alimentari, è solo che il carattere riservato e modesto dalla città e della sua gente si è riflesso inevitabilmente anche sulla sua cucina. Tolti i palati conquistati sul campo (chi assaggia questa cucina se ne invaghisce per sempre), Cuneo nel tempo ha avuto cantori sobri, eventi per lo più locali e vicini davvero ingombranti (le Langhe, la Francia e la Liguria).
Detto questo, ovvero realizzato che, almeno librescamente, la cucina cuneese ha rappresentanti poco noti, ho deciso di impegnarmi il più possibile per testimoniare qui sul blog la realtà vivace e saporita in cui sono cresciuta. Fotografo, filmo, cerco di codificare, ascolto, assaggio, replico, chiedo conferma, e vado a scartabellare in ogni scritto possibile, dal bollettino parrocchiale, agli opuscoli della pro-loco, senza farmi mancare libri e vecchie carte d’archivio. Certo, non si tratta di articoli che riesco a scrivere in mezz’ora….Ci vanno giorni, pazienza e interesse per la complessità, ma dopo tre o quattro ricette di questo genere sono sicurissima: la cucina cuneese è viva e lotta con noi!
Ed ora passiamo al mitico Tupìn. Da tantissimo tempo avevo il desiderio di pubblicarlo qui sul blog, e non nego un paio di tristi tentativi torinesi nel forno di elettrico di casa, oltre a più soddisfacenti prove di cottura nella stufa a legna (in piemontese “il putagé”, la cosiddetta cucina economica). Niente da fare, sapendo che la ricetta originale prevede la cottura di 7-8 ore nel forno del pane, quello che riuscivo a fare io durante questi esperimenti domestici non era che una pallidissima imitazione del vero Tupìn. Così alla fine ho vinto quel briciolino di “buona creanza” per andare a bussare alla porta dei due più grandi esperti di Tupìn valdierese (che per fortuna sono anche i miei zii 🙂 ).
Negli anni passati il comune di Valdieri organizzava ogni autunno una curiosa manifestazione chiamata “Anen a Balar cun Masche e Servan”. Si trattava di una passeggiata notturna per le strade del paese in compagnia di Masche e Servan (esserini sovranaturali e bizzosi delle leggende alpine). Oggi sono moltissimi i paesini che propongono questo genere di camminate mangerecce con annessa rievocazione (molto spesso un guazzabuglio poco edificante di Storia e fantasie). Ma agli inizi degli anni duemila la festa valdierese godeva di una certa genuina originalità che attirava davvero molti visitatori. Uno dei capisaldi degli assaggi proposti era appunto una ciotola fumante di Tupìn, che Flavia&Conce preparavano in quantità pantagrueliche. Stiamo parlando di 1.200 porzioni in una serata (non potevo non fotografare anche il foglietto con le dosi gigantesche 40 kg di patate, 20 kg di porri…). Flavia ha fatto tutta la vita la cuoca ( 🙂 buon sangue non mente), Conce è un appassionato panettiere amatoriale, e con anni di “Tupìn delle Masche” all’attivo, non potevo trovare maestri migliori di loro per farmi rivelare tutti i segreti di questa ricco minestrone di fagioli.
Come detto “Lu Tupìn al fùarn”* (ovvero il Tupìn al forno) è un minestrone caratteristico della stagione fredda composto da patate, fagioli, porro, zucca e zampino di maiale, e cotto nel forno a bassa temperatura per molte ore (dopo la cottura del pane). Forse non c’è piatto più valdierese, e più amato dai Valdieresi di questo!
Di per sé “lu Tupìn” è il nome dell’olla in terracotta, cioè il recipiente che contiene il minestrone, che poi è passato ad indicare il nome dell’intero piatto. Come mi ha raccontato bene Conce un tempo il sabato pomeriggio i Valdieresi erano soliti preparare lu Tupìn nelle proprie case, e poi, per sera portavano la pentola di coccio da uno dei cinque pastìn (laboratorio/forno del panettiere) del paese per la cottura. I Tupìn, infornati verso le sette, cuocevano tutta la notte, o almeno fino a che il panettiere non doveva scaldare il forno per il pane del giorno (verso le 4 o 5 del mattino). La domenica mattina, dopo la prima messa, ognuno passava dal panettiere a riturare il suo Tupìn caldo che veniva riportato a casa grazie ad un apposito gancio (il ferro curvo passava tra i due manici del contenitore di terracotta diventando così un maniglione non ustionante utile per trasportare a casa a piedi il Tupìn senza scottarsi). Fino agli anni ‘70 circa, la cottura del Tupìn nel forno del panettiere costava quanto il prezzo dei maggiori quotidiani in vendita dal giornalaio (cioè da circa 30 lire nel 1960 a 70 lire nel 1970). Il fatto di “portare a cuocere nel forno del pane” erano abitudini ben radicata a Valdieri, e non solo per il Tupìn invernale, ma anche per le teglie di cipolle ripiene (“al siule pine” preparate per la festa della Madonna del colletto) o per le pesche ripiene (“i persi pin” preparati per l’Assunta), e in tanti casi anche per il proprio pane. Lu Tupìn al fùarn è un piatto talmente rappresentativo dell’alimentazione valdierese che mi ha fatto riflettere una nota riportata nel volume Vudìer Cuento III, 2011 nel capitolo dedicato ai sevizi pubblici e privati presenti in valle. Durante l’ultima epidemia di colera attestata in Valle Gesso (nel 1886), il medico condotto del paese Tommaso Rossi scrisse al sindaco raccomandando una serie di precetti sanitari volti ad evitare la terribile (quanto ancora sconosciuta) contaminazione. Tra le norme igieniche chiese di “invitare gli abitanti ad astenersi dai cibi più indigesti, specialmente dai fagiuoli cotti al forno ed all’uopo (suggeriva di far ) chiudere i medesimi quando fossero stati adibiti a tale uso”. I cibi che facilmente potevano “disordinare stomaco e intestini” potevano confondere la manifestazione dei sintomi, e allo stesso tempo i luoghi affollati (come il pastìn la domenica mattina), potevano diventare un focolaio dell’infezione. Questa citazione indiretta del Tupìn attesta un uso antico nella preparazione del piatto, interrotto soltanto su finire degli anni settanta del novecento con l’applicazione di norme sanitarie che non contemplavano più le “cotture a pagamento” nei forni dei panettieri. Come detto però il sapore che questo minestrone assume cuocendo nel forno a legna è talmente originale, che chi si cuoce in casa il pane si prepara ancora volentieri anche il Tupìn (una imitazione degna la si ottiene comunque nel putagè). Naturalmente è un piatto in disuso, sia per la sua anima rustica, sia per il tempo poco moderno che occorre per preparazione e cottura. Però davvero, se avete a disposizione un forno del pane, non mancate di provare questo piatto, stratificato e complesso (come i Valdieresi d’altronde).
Riporto qui di seguito la ricetta preparata a settembre da me, Flavia e Conce. Con queste dosi abbiamo ottenuto 2 Tupìn pieni di minestrone, che a occhio e croce possono sfamare tranquillamente 12/15 persone. Due soli accorgimenti, che ripeto in nota sotto la scheda ricetta: 1. se non possedete un recipiente in terracotta valido e già ben temprato dal calore del forno usate senza problemi una pentola in acciaio inox con relativo coperchio (entrambi ovviamente privi di parti in plastica, come maniglie o pomelli). 2. Sulla componente “maiale” del Tupìn ho raccolto pareri discordanti (una diversa per ogni quartiere di Valdieri). Ognuno ha la sua verità sul Tupìn, ma ricordate che ambasciator non porta pena: c’è chi usa lo zampino di maiale, chi orecchie e coda, chi le costine, chi una fetta di lardo, e chi ancora pasta di cotechino (quest’ultimo, dice Flavia, è da usarsi solo dalle 100 porzioni in su, o meglio per garantire il sapore, ma evitare problemi di ossa e ossicini dispersi nella minestra da servire al pubblico). A logica credo che le versioni più antiche volessero zampino, o orecchie e coda di maiale (che poi era un modo saggio per sfruttare al meglio parti economiche della bestia). Ma allo stesso tempo le ricette evolvono con i gusti di chi le prepara per cui oggi si ottiene un ottimo Tupìn con due belle costine, senza rimpiangere quell’unta sericità dello zampino.
Infine la regola vuole che un Tupìn perfetto si riconosca dal fatto che nel minestrone addensato dalla lunga cottura si possa piantare un cucchiaio di legno, e che questo rimanga ben dritto senza cadere (nell’equilibrio tra verdure e liquidi risiede la maestria del piatto)!
Naturalmente ringrazio con tutto il cuore Flavia e Conce, che oltre ad avere la cara nipotina piantata in casa per ben due giorni hanno risposto con infinita pazienza ad ogni mia domanda (quando mi metto sono un tormento)! In conclusione di questo Tupìn a km0 nota al merito alle verdure e alle patate di Conce, coltivate nell’orto montanaro, e strappate a suon di reti, spaventapasseri e brontolate alla voracità dei tanti animali selvatici che popolano i boschi della valle.
*questo minestrone al forno è diffuso e amato in tutto il cuneese. Nel paese vicino, Andonno, sempre in Valle Gesso prende il nome di “Marsënc”, mentre altrove, in generale, è indicato come “ula” o “ola” (da olla) che è altresì il recipiente di terracotta contenitore della pietanza.
Lu Tupìn al fùarn
- 1,200 kg fagioli borlotti freschi (o 360 g di secchi messi in ammollo)
- 300 g carote
- 600 g patate
- 200 g porri
- 400 g zucca
- 500 g costine di maiale
sale grosso, acqua qb
n.b: si possono usare anche i fagioli secchi tenendo presente che 100 g di fagioli freschi, corrispondono a 30 g di quelli secchi, ma vanno comunque messi in ammollo in acqua la sera precedente all'uso per almeno 12 ore.
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Sgranare i fagioli frechi e pesarne 1,200 kg. Disporli sul fondo del Tupìn.
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Tagliare le carote lavate e mondate a dadini. Pesarne 300 g e disporle sui fagioli nel fondo del Tupìn. Aggiungere le costine di maiale.
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Tagliare le patate lavate e mondate a dadini. Pesarne 600 g e ricoprire lo strato di carote e le costine di maiale.
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Affettare sottilissimamente i porri, pesarne 200 g e disporli sullo strato di patate.
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Tagliare la zucca lavata e mondata a dadini. Pesarne 400g e ricoprire lo strato precedente
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A questo punto coprire il tutto con acqua fredda (dovrebbero servire circa 3/4 litri, l’acqua deve superare di 1/2 cm lo strato di zucca), e unire un cucchiaino di sale grosso. Coprire il Tupìn con il suo coperchio e infornare nel forno dove è stato appena cotto il pane per almeno 7/8 ore, ma anche per tutta la notte.
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Il giorno seguente estrarre il Tupìn dal forno. Avrà questo aspetto un po’ asciutto e rinsecchito, ma non temete, deve ancora essere rimescolato.
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Mescolare bene il minestrone in modo che tutti gli ingredienti si amalghino tra loro. A questo punto assaggiare e salare secondo i gusti (eventualmente pepare con pepe nero di mulinello). Se è il caso riscaldare appena e servire per il pranzo della domenica.
Due accorgimenti: 1. se non possedete un recipiente in terracotta valido e già ben temprato dal calore del forno usate senza problemi una pentola in acciaio inox con relativo coperchio (entrambi ovviamente privi di parti in plastica, come maniglie o pomelli). 2. Sulla componente “maiale” del Tupìn ho raccolto pareri discordanti (una diversa per ogni quartiere di Valdieri): c’è chi usa lo zampino di maiale, chi orecchie e coda, chi le costine, chi una fetta di lardo, e chi ancora pasta di cotechino (quest’ultimo, dice Flavia, è da usarsi solo dalle 100 porzioni in su, o meglio per garantire il sapore, ma evitare problemi di ossa e ossicini dispersi nella minestra da servire al pubblico). Le versioni più antiche probabilmente avevano lo zampino, o orecchie e coda di maiale (che poi era un modo saggio per sfruttare al meglio parti economiche della bestia). Ma allo stesso tempo le ricette evolvono con i gusti di chi le prepara per cui oggi si ottiene un ottimo Tupìn con due belle costine, o con una fetta di lardo, senza rimpiangere quell’unta sericità dello zampino.
Giulia dice
Grazie Betulla per il tuo lavoro instancabile e quantomai prezioso alla ricerca delle tradizioni piemontesi più autentiche.
Mi ripeto ma il tuo blog è davvero una perla rara e passerei le ore qui da te, persa tra i tuoi racconti.
Betulla dice
Oh Giulia, ma che piacere le tue parole. Grazie grazie grazie, sono post impegnativi, ricchi e densi di storia…per fortuna c’è chi li apprezza! A presto cara!
Stefano Dalmasso dice
Anche a casa mia CONTINUIAMO a fare l’ula al furn,nel forno vecchio più di 150 anni,ma essendo un piatto povero gli ingredienti sono ancora più essenziali, noi usiamo patate,porri, fagioli borlotti,e costine,non il piutin di maiale perché troppo grasso, secondo me è più ula e meno minestrone, secondo la ricetta di mia nonna e mia mamma.