Come ben sapete vago spesso e amabilmente tra vecchiumi, piccolo antiquariato, brocante e “pulci” varie… Così l’ultima volta che sono stata a Gran Balôn questa primavera me ne sono tornata a casa con un ricco bottino di ceramiche blu e con un libro assai curioso dedicato ai menù: nel mondo di chi si occupa di storia del cibo Masimo Alberini, l’autore, non ha bisogno di presentazioni, e io non ho perso l’occasione di leggerlo a pochi euro. Solo che, passata l’ebrezza della “caccia al tesoro” ben riuscita, il libro è rimasto a lungo ad aspettarmi desolatamente abbandonato in una borsa. Ci sono voluti un paio di mesi prima di riuscire a scendere dal frullatore esistenziale “bellastagione” e dedicargli davvero del tempo. Finalmente mi metto a leggerlo. Lo sfoglio tutto da cima a fondo. Poi ricomincio, da fondo a cima, affascinata dalle illustrazioni deliziose che dovrebbero raccontare la storia del menù, e invece raccontano molto di più sul nostro bizzarro mondo goloso. E in questo andirivieni trasognato mi rendo conto che la quarta di copertina è “rinforzata” da un cartoncino incastrato nella fodera di plastica. Che stranezza, mi sono detta! Già è inconsueto trovare un libro così foderato come un testo scolastico soggetto a usura quotidiana…poi anche questa aggiunta di sostegno. Forse chi lo possedeva doveva considerarlo davvero prezioso. Alla fine ho capito che il cartoncino giallino incastrato nella fodera era in realtà un vecchio menù. Certo: dove conservare un vecchio menù se non in un libro che parla di menù? Ma la cosa più incredibile è che non si tratta di un menù qualunque, bensì della lista delle vivande servite in prima classe sul piroscafo “Conte Verde” per il pranzo del 27 luglio 1936 (88 anni or sono).
Occhi a cuoricino. Stordimento. E in un attimo si è spalancata davanti a me la porta di un universo sconosciuto. O probabilmente la porta di più universi. Ovviamente sapevo poco sui cosiddetti “menù storici” e ancor meno sui piroscafi (Titanic a parte). L’occasione però era troppo ghiotta per rimettere tutto a dormire sullo scaffale di una libreria come se niente fosse. Quando il vaso di Pandora si scoperchia non si torna indietro…e così io ho deciso che se questo menù era arrivato fortunosamente tra le mie mani si meritava il mio palcoscenico, il mio adorato pubblico, e quanti più lettori curiosi possibile!
Mesdames et Messieurs ecco a voi l’avventurosa storia di un transatlantico nato in Scozia da Lloyd Sabaudo, per questo battezzato come lo scaltro progenitore della stirpe savoiarda (Amedeo VI), e tenuto al varo in quel di Glasgow il 22 ottobre del 1922 da Maria Cristina Bezzi-Scali, soave nobildonna romana meglio conosciuta come la seconda moglie di Guglielmo Marconi. E solo con questo incipit potremmo stare a cianciare ore, se non che i 28 anni di vita del piroscafo sono stati talmente densi e intensi che per raccontarli bene forse non basterebbe un libro di 500 pagine. Per tutto quel che scrivo qui sono debitrice ai numerosi blog a tema marinaro che riportano con dovizia di particolari le vicende del “Conte Verde”, uno tra tutti: “Con la pelle appesa al chiodo” di Lorenzo Colombo, in ricordo dei militari e civili italiani scomparsi in mare durante la seconda guerra mondiale (e qui potete immaginare il triste epilogo del piroscafo). Nelle ultime settimane ho letto tantissimo su questo possente transatlantico che ha solcato i mari del globo e anche la Storia: rotte, celebrità, avventure, rovesci di fortuna, tempeste, capitani, rinascite, navi gemelle, e navi sorelle, riarmi, nemici, amici, lussi, arredatori, artisti, artigiani, forniture, caldaie, nodi, liste passeggeri, personale, vita di bordo, “Nastro Azzurro”, emigrati, rifugiati, turisti, menù, volanti pubblicitari, Lloyd, armatori… Nel grande mare di internet, come in quello vero, si trova quasi ogni cosa. E la vita del “Conte Verde” piroscafo ha davvero qualcosa in comune con la vita del “Conte Verde” in carne e ossa. Entrambe rocambolesche, eroiche, straordinarie. Eppure in tutto questo bailamme di sfolgoranti accadimenti quello che più mi ha colpito è un episodio minimo, che nulla ha a che fare con la grande Storia. Una noticina (forse) sul diario di bordo in cui, voglio credere, sia nascosta l’anima di questa grande nave. Le navi hanno un’anima? Non so, i marinai dicono di sì. Ma forse hanno semplicemente un’anima grande tanto quanto quella del loro capitano. In ogni caso su questo sito ho letto la storia del Conte Verde in viaggio tra Manila e Singapore nel 1939. Ad un certo punto a bordo si rendono conto che il cameriere Cebular Antonio manca all’appello. Era stato visto pulire i finestrini sotto il ponte di comando circa un’ora prima, poi più nulla. Il capitano Valcini non ci pensa due volte, incrocia dati per me complessi come tempo, nodi, forza del mare…e chissà cos’altro, poi inverte la rotta della sua nave: vuole tornare indietro di circa 25 miglia per provare a salvare il suo uomo in mare. Nessuno però l’ha visto cadere. Potrebbe essere stato triturato dalle eliche. Eppure il capitano torna indietro senza esitazioni. Fa armare due scialuppe, una per lato della nave, con tanto di medico, pronte per salvare il naufrago. Centinaia di occhi scrutano il mare agitato, i motori sono fermi, ma le speranze si affievoliscono con il tempo che passa. All’improvviso il capitano ha un ripensamento, ordina un giro completo col timone a sinistra, poi un altro a dritta, poi un terzo a sinistra. «Ed ecco, dopo pochi secondi, a soli 40 metri dalla nave un uomo che nuotava disperatamente solo in mezzo all’oceano da circa a quattro ore! Un urlo delirante di gioia corse per tutta la nave». Cebular Antonio, caduto in mare lucidando gli ottoni, è salvo. Salvato dall’intuito del suo capitano che non l’ha lasciato in pasto ai “pescicani” dell’oceano (solo i gabbiani l’hanno tormentato un po’). Insomma non so nulla di navi, di mari, di codice marittimo, navigazione…ma sono pur sempre una cuoca, e quando penso a una grande nave come il “Conte Verde” io penso soprattutto “ai piani bassi”, a quelli che viaggiavano per lavoro, al personale che trasformava un piroscafo qualunque in una grande, splendida, struttura alberghiera galleggiante (compresi i ragazzi della Marino Boccanegra di Genova scuola alberghiera specializzata nella formazione di personale di bordo). Cebular Antonio era un signor nessuno, forse era l’ultimo dei camerieri del Conte Verde. Di sicuro non era uno dei celebri ospiti danarosi che viaggiavano sui suoi ponti di prima classe. Eppure il suo capitano è tornato a cercarlo. Una piccola speranza contro la vastità feroce dell’oceano.
Sono sempre queste le storie che mi piacciono: i lumicini, i reduci, i miracolati dalla sorte, i dimenticati. Quelli ai margini. Come un menù cartoncino stampato, che ha viaggiato sino all’estremo Oriente, ed è tornato in Italia, e contro il destino già scritto delle cose fragili è sopravvissuto molto più a lungo della nave d’acciaio che lo ospitava. Una piccola speranza contro la vastità feroce dell’oceano.
IL PIROSCAFO CONTE VERDE
Correva l’anno 1913. I passeggeri sulle rotte dell’Atlantico erano in aumento e la compagnia Lloyd Sabaudo, in espansione, ordinò al cantiere scozzese William Beardmore & Co di Glasgow la costruzione di due transatlantici più grandi e più lussuosi di tutti quelli allora esistenti sotto bandiera italiana: il Conte Rosso e il suo gemello Conte Verde. Lo scoppio della prima guerra mondiale rallentò il progetto sino a fermarlo del tutto, ma le due navi vennero nuovamente ordinate nel novembre 1918.
Il cantiere ripartì: gli impianti di bordo e le componenti meccaniche vennero costruite in loco, mentre arredi arrivavano direttamente dall’Italia (spesso insieme agli artigiani in grado di installare il tutto). Alla decorazione degli interni del Conte Verde parteciparono artisti quali i fratelli Coppedè, Gustavo Pulitzer Finali, Giò Ponti e Tomaso Buzzi, e la rinomata casa Ducrot di Palermo.
Il Conte Verde era una commistione di stili, di lusso e di alto artigianato italiano: l’ingresso, le due grandi sale da pranzo, e la biblioteca richiamavano il rinascimento (ebbene sì, su questi piroscafi di super lusso c’era la biblioteca). La sala musica era in stile pompeiano, con le scale in marmo rosa e una scenografica cupola in vetro, la sala fumatori era invece in stile moresco (imitazione dell’Alcazar di Siviglia), mentre le verande esterne erano in stile liberty.
Gli spazi comuni erano insolitamente ampi, con soffitti che raggiungevano i 6 metri, e deliziose rifiniture con pannelli lignei intarsiati, dipinti e mosaici. Rispetto agli standard della concorrenza persino la terza classe era migliore, più confortevole e spaziosa, ed i bagni avevano addirittura l’acqua corrente. Gli apparati della nave potevano produrre 50.000 litri di acqua dolce al giorno; ogni cosa a bordo era moderna, funzionale e innovativa, dagli impianti elettrici alle le strutture dello scafo rinforzate, inoltre, (piccolo particolare molto significativo), tutte le scialuppe erano dotate di radio.
Ognuno di questi elementi, uniti al rinomato servizio di ristorazione, e a una eccellente puntualità, decretarono da subito il successo del Conte Verde, che insieme al Conte Rosso venne scelto negli anni da migliaia di passeggeri sulle linee per l’America, come su quelle per Estremo Oriente. Veloce e lussuoso il Conte Verde poteva trasportare 230 passeggeri in prima classe, 290 in seconda e 1880 in terza, con un equipaggio di 440 elementi (parliamo in totale di circa 2840 persone).
Nello specifico, per avvicinarci ai tempi del nostro menù, ovvero gli anni Trenta occorre ricordare che nel 1933 il Conte Verde e il Conte Rosso sono acquistati dal Lloyd Triestino. Le navi vengono ridipinte con la livrea della nuova compagnia: scafo e sovrastrutture bianche, fumaioli giallo oro. Sul Conte Verde vengono rifatti anche parte degli alloggi interni: le cabine sono più ampie e comode, si riduce così la capienza passeggeri a favore del traffico merci. Il Conte Verde è posto definitivamente in servizio sulle linee per l’Estremo Oriente (Trieste-Venezia-Brindisi-Port Said-Bombay-Colombo-Singapore-Hong Kong-Shanghai), che copre in 24 giorni.
Sappiamo che il 26 giugno del 1936 si imbarca a Shanghai l’intera squadra atletica cinese diretta in Germania per le Olimpiadi di Berlino. Il Conte Verde trasporta dalla Cina all’Europa atleti, giornalisti e tifosi (76 atleti e 42 funzionari) accolti festosamente a ogni scalo del piroscafo. A bordo gli atleti rispettano un rigido programma di allenamento, ma a poco meno di una settimana dalla partenza (appena lasciata Bombay), quasi tutti gli atleti cominciano a soffrire di mal di mare. Per il resto del viaggio non riusciranno più ad allenarsi. Il transatlantico attraccherà a Venezia nella notte del 20 luglio, ma stremata dal viaggio per mare e completamente fuori forma l’intera squadra avrà risultati molto deludenti alle Olimpiadi.
Dato che il menù è del 27 luglio 1936 il Conte Verde doveva essere appena ripartito dall’Europa per l’Oriente…
Come spiega bene Massimo Alberini nel capitolo “A Bordo” (tutto dedicato ai menù galleggianti) è proprio intorno agli anni Venti che sulle navi si comincia a dare importanza alla ristorazione, a migliorare la conservazione delle derrate alimentari, quindi anche l’offerta a tavola (per la prima classi il livello dei pasti a bordo diventano simbolo stesso del successo e della mondanità).
«È soprattutto nel periodo tra le due guerre che le grandi compagnie di navigazione si battono per offrire una vita di bordo sempre più attraente e lussuosa, mettendo in prima linea i pasti, sempre compresi, secondo la tradizione marinara, nella quota di “passaggio”». Anche il menù in sé acquista rilievo, e la realizzazione grafica è spesso talmente piacevole che questi cartoncini vengono conservati gelosamente come “souvenir”, ricordo del bel mondo in viaggio. La commistione tra “piatti internazionali” e preparazioni delle nostre regioni italiane è tipica del periodo, così ad esempio sul menù che ho tra le mani “la terrina di fegato d’oca”, “il consumato caldo”, e “l’aragosta in salsa gribiche” convivono serenamente con “la verzata milanese”, “la costata di manzo alla napoletana” o “lo zampone di Modena ai cavoli acidi”. Una scritta in piccolo al centro ricorda che «Per i piatti speciali non compresi nella presente lista rivolgersi al Maître d’Hôtel». Inoltre ci sono «Cuoco cinese e indiano a bordo»!
In tutta questa offerta strabiliante io ho deciso di replicare le scaloppine di vitello al Marsala. Oggi hanno per noi un sapore desueto e antico (le amano ancora molto gli stranieri, e purtroppo sono in carta quasi esclusivamente nei ristoranti “acchiappaturisti” accanto alle grandi attrazioni del nostro bel Paese). In ogni caso se dovessi descrivere gli anni Trenta con un sapore penserei proprio a loro: le mitiche scaloppine al Marsala con quella nota dolciastra e malinconica sul finale. Per proporvi una ricetta d’epoca (almeno contemporanea al menù del Conte Verde) mi sono rivolta al mitico “Talismano della Felicità” di Ada Boni la cui prima pubblicazione risale proprio al 1929. Ora io amo profondamente questo ricettario, che da 95 anni circa rassicura le spose e veglia sulle cucine degli italiani. Amo Ada Boni, schietta, pratica, affidabile e colta (ve ne ho già parlato in questo post). E ovviamente amo le scaloppine burrose e succulente, con quel goccetto di Marsala a caramellarle. Sono ormai così demodè che io mi aspetto/mi auguro presto una riscoperta…un ritorno glorioso! 😉
Intanto buon w.e cari bacucchini, spero che vi sia piaciuta questa storia di naviganti&cucina!
A presto…
SCALOPPINE AL MARSALA
di Ada Boni, “Il Talismano della Felicità”, ed. Colombo, 1929.
Per 6 persone: Fettine di vitello, g.600 – Sale – Pepe – Farina – Burro, g.100 – Marsala, mezzo bicchiere – Brodo o acqua
Battete leggermente le fettine di vitello, conditele con sale e pepe e passatele in un velo di farina.
Mettete sul fuoco un tegame piuttosto largo in cui le bistecchine possano stare allineate in un solo strato, fateci fondere un pezzo di burro e quando il burro sarà ben caldo mettete giù le bistecchine, facendole cuocere a fuoco vivace da una parte e dall’altra. Appena cotte bagnatele con un po’di marsala, e sempre a fuoco forte lasciatele insaporire per un altro minuto.
Accomodatele in un piatto, aggiungete nel tegame qualche cucchiaiata di brodo o d’acqua, staccate bene il fondo della cottura e versate questa poca salsa sulle bistecchine.
Ricordate di infarinare le scaloppine proprio al momento di cuocerle.
Bibliografia/Sitografia:
Massimo Alberini, “Mangiare con gli occhi. Storia del menù”, Edizioni Panini, 1987.
Conte Verde transatlantico
Con la pelle appesa al chiodo (Conte Verde piroscafo)
Navi e Capitani
I Diari raccontano
La storia del Conte Verde (video you tube)
COSMAR Comitato per la Salvaguardia della Dignità dei Marittimi
199+1 Piroscafi di carta (Catalogo mostra a cura della Libreria Antiquaria Drogheria 28)
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