Sono una fifona sesquipedale. Per farla breve ho timore persino della mia ombra e per spaventarmi a morte basta sussurrare “babau” dietro una porta (lo sa bene mio fratello che con un nonnulla riesce da sempre a farmi fare strilli degni di un’aquila spennata). Insomma non fronteggio bene le inquietudini della vita reale, figuriamoci quelle dell’immaginario. Non mi riferisco al fatto di non aver mai visto un film horror per intero (l’unico tentativo in questa direzione è finito trascorrendo due ore al cinema con gli occhi chiusi, strizzati fortissimamente per non vedere proprio nulla), ma onestamente non sono in grado di affrontare neanche il “crime”, la maggior parte dei gialli, e tante volte mi turba sino alle lacrime persino il telegiornale. Stessa cosa, se non peggio, con la parola scritta (per me ancor più incisiva che le immagini). Ho letto solo un libro di Stephen King. Esperimento per amore di letteratura e curiosità adolescenziale (per dire che non ti piace un genere devi assaggiarlo). Ecco, l’esperimento non si ripeterà mai più. Anche se il libro era “Dolores Clairbone”, che la gente normale considera un romanzo thriller, non certo una narrazione per lettori impavidi. Il mio grado di sopportazione dell’orrore è questo: zero. Zero meno se possibile. Eppure negli anni mi sono resa conto che non è vero. E che, come tutti, non sono al riparo da enormi contraddizioni. Rifuggo horror, storie di paura, sangue, ossa, splatter, violenza, perversioni psicologiche et similia…e poi cosa faccio? Passo le notti a leggere cose horror, storie di paura, sangue, ossa, splatter, violenza, perversioni psicologiche et similia…Stesse identiche cose, solo che non stanno in un film o in un libro moderno, ma dentro a racconti popolari, leggende, proverbi e superstizioni. Cambia solo la cornice (che in questo caso è quella del folcklore) e misteriosamente tutti questi affari spaventevoli diventano per me interessanti, anzi rassicuranti, curiosi, amati. Funziono così: l’horror moderno e la realtà troppo brutta no, l’horror bacucco sì.
Per questo stasera condivido con voi questa piccola “storia di masche” della valle Gesso. Un po’ perché per certe storie possono essere raccontate solo con atmosfera giusta, da veglia nella stalla con l’autunno che incombe fuori dalla porta (e questa notte mi sembra perfetta). Un po’ perché voglio trascriverla qui, in maniera che se ne conservi la memoria anche oltre la mia famiglia e oltre alle mie amate Alpi Marittime. E un po’ perché ho imparato che alla fin fine persino la paura, come tutti i sentimenti umani, ha la sua utilità. Certo, io sarò sempre e comunque una grandissima cacasotto, ma riconosco alla Paura la sua fondamentale “valenza didattica” all’interno di una narrazione. Solo così riesco (appena appena) a sopportarla.
LA MASCHO CIABRO
(La Mascho Capra; leggenda popolare della Valle Gesso)
Un giovanotto di Valdieri, in Valle Gesso, andava sempre a trovare la sua “calinhairo” (innamorata) a Desertetto. Una sera scendendo a valle dopo averla incontrata, ormai lontano dalle ultime case della borgata, trova in mezzo alla strada una capra solitaria che lo osserva. Neanche il tempo di guardarla bene, che la capra innervosita lo carica e tenta di incornarlo. Per fortuna il giovane è pronto e presente, si getta di lato, e per un soffio riesce a scartarla. Anzi, ripresosi dallo spavento, la mette in fuga a suon di bastonate, tant’è che la capra perde persino un pezzetto di corno sul sentiero.
La sera successiva, salito di nuovo a Desertetto per il consueto incontro amoroso, il ragazzo viene informato che non può vedere la sua amata: è a letto ferita alla testa, per una brutta caduta. Incredulo e costernato, capisce quindi di essersi innamorato di una “mascho”.
Tutto sarebbe finito così, rompendo semplicemente il fidanzamento, e con un grande “scampato pericolo”, se gli amici del giovane, informati dell’accaduto, non avessero iniziato a prenderlo in giro: «Uhio uhio, chi tumbo sus uno mascho, se la gardo» (ovvero: «chi cade sotto l’incantagione di una mascha, se la tiene»). Invece di lasciar correre gli scherni, il giovane risponde: «Segur que me la gardo: vous fau veire» («Certo che me la tengo, ve la farò vedere!»). E poco dopo sposa la bella fanciulla di Desertetto, solo per indurre gli amici a ricredersi sulle loro cattiverie.
Non passa molto tempo che un mattino, non era ancora giorno, il novello sposo entra nella stalla a mungere le vacche, con un secchio in una mano e la gerla del fieno nell’altra. Nota che tra le capre ce n’è una con un corno rotto. Chissà con chi avrà dato di cozzo? Neanche il tempo di pensarlo che la capra gli arriva addosso, mandandolo all’altro mondo con una cornata nella pancia.
Come detto nell’introduzione l’argomento della mitologia della montagna piemontese mi appassiona moltissimo. Viceversa però questo è uno di quei temi che, come carta moschicida, attira una gran quantità di fole, di invasati, e di informazioni superficiali e tendenziose (che eventualmente culminano in un evento o in “qualcosa” di culturale/storico -turisticamente rilevate-, con scriteriata aria medievale e cibo). Voler cercare informazioni serie circa le masche piemontesi su internet è come cercare un ago in un pagliaio, e purtroppo la situazione non è migliore nemmeno nella carta stampata, dove abbondano pubblicazioni inerenti magia e mistero in terra piemontese che partono associando le masche alle streghe e, rileggendo il Malleus Maleficarum, finiscono per ricostruire l’intera storia mondiale della stregoneria con relative Salem sabaude, inquisitori, roghi e vittime innocenti. Niente di più sbagliato perché prima di tutto una masca non è una strega. Punto. No naso bitorzoluto, no pentolone, no casa dei fantasmi a Disneyland. Per tutto il resto, mi rimetto alle sagge parole e alle vaste conoscenze in merito di Marco Aime, docente di Antropologia Culturale all’Università di Genova. Molti anni or sono, per scrivere la sua tesi di dottorato, Marco Aime ha trascorso un anno intero in Valle Grana tra la gente della Chalancho (in italiano Borgata Cialancio). L’intento era quello di intervistare i montanari sui racconti di masche. Questo libro (“Il lato selvatico del tempo”) racconta l’esperienza di quell’anno. Dentro ci sono brandelli dei suoi appunti e brandelli di un mondo di credenze e superstizioni ormai scomparse insieme alla civiltà delle terre alte. Ha il merito di essere una lettura godibilissima (pur se malinconica e a tratti straziante), che associa il rigore scientifico di uno studioso a una prosa narrativa di grande forza poetica. Qui il sovranaturale delle montagne cuneesi non luccica, non urla, non fa chiasso. Anzi, come conclude sconsolato un anziano interlocutore dell’autore, ormai le masche se ne saranno andate via da queste valli, così come se n’è andata la gente.
Per me rimane il libro più dolce e commovente che io abbia mai letto sulle masche.
Queste che trovate riportate di seguito sono le parti che ho sottolineato (arbitrariamente). Vado a rileggermele ogni tanto. Quando ho bisogno di ricordarmi del lato selvatico del tempo, e in fondo anche del “lato selvatico” di ogni creatura femminile.
Come vedrete meglio il lavoro di Marco Aime aiutano a comprendere meglio anche la leggenda della Mascho Ciabro della Valle Gesso, il cui giovane e avventato protagonista contravviene in un colpo solo a ben tre “regole del vivere civile”: 1. vaga di notte fuori dall’abitato 2. ha come “calinhairo” (fidanzata) una ragazza che non è di Valdieri (Desertetto è a 5,6 Km da Valdieri -circa 1 ora e 30 di cammino a piedi in salita). 3. non si cura degli avvertimenti e sposa la fanciulla nonostante sappia che sia una mascho. Nella struttura narrativa del racconto riportato oralmente la sua morte è la punizione per tanta baldanza, oltre che monito a guardarsi bene da perigliose bizze caprine.
Anche nel dialetto valdierese, come in quello della Chalancho, il femminile è declinato con la «o». Per cui quella che altrove si chiama “masca/mascha” in Valle Gesso è la “mascho”.
“IL LATO SELVATICO DEL TEMPO”
di MARCO AIME
Masca, che qui alla Chalancho declinano mascho, con la tipica «o» finale dei femminili provenzali, è il termine usato nei dialetti di tutto il Piemonte per indicare figure femminili simili alle streghe. Pare risalire al tardo latino del VII secolo, ma con radici forse più antiche. Secondo il dizionario etimologico di Carlo Battisti in molti casi si alternava con basca, derivato forse dal termine greco baskein. Che indica fatti di magia, come baskanos, stregare, baskanion, amuleto, baskanio, fascino – da cui a sua volta deriva il latino fascinum che significa maleficio. E ancora, da questi termini derivano il verbo francese rabacher, il fare baccano tipico degli spettri, e il termine masco appartenente al provenzale da cui il francese masque, che, oltre a maschera significa ragazza sfrontata. Il primo profilo che emerge da queste definizioni è quello di una donna legata alla magia, all’incantesimo, alla trasgressione. […]
Giorno e notte, abitato e selvatico: […] Il tempo del lavoro era lungo come l’arco del sole, non si poteva sprecare un minuto. Anche la luce era un contributo alla sopravvivenza; di conseguenza la notte era sì, il tempo del riposo, ma sotto certi aspetti anche un tempo improduttivo, inutile, negativo. Di notte ognuno si rinchiudeva nella propria casa, tra quelle mura che proteggevano dagli sguardi invadenti degli altri. Era l’unico momento in cui la comunità allentava il proprio controllo sociale sugli individui, ognuno era libero di comportarsi come meglio credeva senza rendere conto a nessuno.
Allora, ecco che tutto accadeva di notte, tutto veniva attribuito a questo momento incerto e indefinito dell’esistenza. Come il controllo dell’uomo cessava, tutto tornava a essere selvatico. Anche il bosco appena fuori le case, ma soprattutto quei valloni oscuri e freddi che incutevano paura persino di giorno. La notte era il rovescio del giorno, il lato selvatico del tempo.[…]
Umano/Animale. La masca non era del tutto umana, aveva poteri che gli altri non possedevano. C’era qualcosa in lei che la avvicinava al mondo animale. Quando si trasformava, assumeva sembianze animali: diventava volpe, cane, mucca, capra e nessuno se ne accorgeva, solamente le bestie. […] La masca era una figura extraumana, molto più vicina al regno del selvatico che a quello degli uomini. Ma il fatto che poi ritornasse ad essere una donna comune, accentuava ancora di più la sua ambiguità. Si trattava di un essere sfuggente e indefinito, che non poteva non suscitare timori e paure. […]
«Noi eravamo bambini quando i vecchi raccontavano queste cose». Nella stalla, tra i fruscii della paglia e la luce traballante delle lampade a petrolio, le parole dei più anziani colpivano le orecchie dei giovani e dei bambini che imparavano a poco a poco a convivere con le masche. La presenza inquietante di queste figure misteriose diventava parte integrante dell’universo culturale di quei montanari. Ripercorrendo rapidamente tutte queste vicende mi accorsi che c’era qualcosa di più sotto quelle storie strane, c’era qualcosa che andava oltre il racconto.
Che le masche fossero donne che si comportavano in maniera trasgressiva e anomala era chiaro, come era chiaro il monito che veniva rivolto: rispettare le regole. Ma c’era dell’altro: c’era un giovanotto farfallone […], c’erano degli uomini sbruffoni, c’era un adultero, c’era gente che andava da sola di notte: tutti puniti.
I puniti sarebbero stati quei ragazzi e ragazze se avessero ripetuto le gesta di quelle persone. Le masche servivano anche a questo, le loro malefatte esprimevano una forte componente normativa, ribadivano costantemente ciò che era lecito e ciò che non lo era.
Qualsiasi accusa di stregoneria si fonda sull’implicita concezione di una bontà interna minacciata da entità esterne. Le masche creando paura intorno a certi luoghi e a certi eventi, contribuivano a ristabilire l’ordine sociale, a tracciare in modo sempre più netto i confini tra il bene e il male. Tutti i racconti caratteristici di una comunità ne riflettevano i tratti più tipici ed esprimevano il concetto di una chiara armonia interna continuamente minacciata. Anche a questo servivano quei racconti, a sottolineare e a rafforzare l’unità e la solidarietà tra i membri della borgata.
Ero contento di essere finalmente riuscito a frugare tra le rughe di questa vecchia scorza; non era tutto, questo no, ma il mio lavoro era riuscito, seppur per poco, a fare rivivere quella tradizione che sembrava ormai destinata ad ammuffire nelle pieghe della memoria di quei pochi anziani montanari.
BIBLIOGRAFIA:
-Aime Marco, Il lato selvatico del tempo, Milano, Salani, 2008 (già pubblicato con il titolo “Chalancho. Terra provenzale” nel 1992).
-Arneodo Sergio, Nel Mondo delle minoranze etniche alpine, le valli provenzali libera terra dell’uomo d’Oc, Centre prouvençal coumboscuro, Sancto Lucio de Coumboscuro, 1980.
-Borra Agostino (a cura di), Milano Euclide, Un giardino di folk-lore, Tradizioni, leggende e canti popolari della provincia di Cuneo, Centro Studi storico-etnografici Museo storico-etnografico “A.Doro” Rocca de’Baldi, 2001.
-Borra Agostino (a cura di), Milano Euclide, Proverbi, superstizioni e leggende della provincia di Cuneo, 2011.
– Vudìer cuénto, opera in tre volumi a cura dell’omonima associazione culturale valdierese, 2007/2008.
Come sempre tutte le foto sono mie. Chi ruba incontrerà la Mascho Ciabro in corna e pelliccia. E se la guardi bene capisci che non è un bell’augurio! 😉
Laura dice
Grazie di questo racconto. È affascinante