BUONE LETTURE: Nonna Genia, di Beppe Lodi e Luciano De Giacomi, arabAFenice edizioni, 20 euro, 352 p.
A dire la verità NONNA GENIA non è solo un libro…negli anni è diventato il simbolo di un mondo perduto (e ritrovato?) esistito sulle colline del basso Piemonte. Nonna Genia è ormai un grande classico della cucina delle Langhe. È un libro veramente imperdibile: nato nel 1982 (ottima annata), dopo lunghissime ricerche, dall’incontro curioso tra Beppe Lodi, studioso di psicanalisi, e Luciano De Giacomi, farmacista albese ed enogastronomo. Come ricorda l’introduzione, anche il Piemonte degli anni Sessante correva: le industrie attiravano le persone lontano dalla campagna, le mode cambiano e cambiavano anche le abitudini alimentari…In mezzo a questo turbinoso boom economico un gruppo di buongustai innamorati del proprio territorio si rese conto del rischio di perdere una grande tradizione gastronomica. « C’era una “cucina da salvare”: non per smettere di innovare, ma per non perdere le radici; non perchè i grandi vini di Alba e delle Langhe non possano ben accompagnare cibi di tutto il mondo, ma perchè l’abbinamento con alcuni piatti della tradizione locale li esalta ». Il gruppo di appassionati -associatosi poi nella Famija Albeisa- cominciò a cercare, prima di tutto nelle proprie case, chiedendo ai conoscenti, alle cuoche delle trattorie (mi spiace ma la cucina di Langa, come conferma il libro- è femmina fino al midollo) per sperimentare, provare e trascrivere. Luciano De Giacomi spiegava il titolo del libro raccontando: « La mia Mare Granda con una grossa famiglia attorno di cognate, figli, nipoti in un tempo in cui erano rare le altre possibilità di ritrovarsi insieme e pertanto il piacere connesso alla tavola era sovrano, godeva nell’offrire questo piacere alla sua famiglia ed agli amici, e lo realizzava con vera gioia, quasi come un’arte ».
Eugenia De Marchi aveva sposato Antonio De Giacomi, proprietario del mitico ristorante/albergo di Alba Cannon d’oro, nonché sapiente produttore di Dolcetto e Barbaresco. Genia aveva un suo quaderno di ricette…ma come tante cuoche quelle trascritte erano soltanto le più inconsuete, esotiche o complesse. Quelle più di frequenti, quelle tradizionali riproposte ogni giorno, non necessitavano di carta e penna: risiedevano nel “saper fare” tramandato per linea tutta femminile di madre in figlia. Ad ogni modo Luciano De Giacomi fece assurgere Nonna Genia a simbolo di quella tradizione enogastronomica dell’Albese che aveva le sue maggiori rappresentanti proprio in una generazione di donne straordinarie dalle vite casalinghe, riservate e modeste, magari scevre di tracce scritte, (poche fotografie, qualche lettera) capaci però di lasciare ricordi indelebili nelle loro famiglie. Ecco che le cento ricette del libro Nonna Genia sono la cucina di quelle donne, di quelle colline pettinate dalle viti, punteggiate di paesi, campanili e torri. Sono la tradizione rustica degli orti e delle vigne, sono le raffinatezze borghesi delle vicine cucine cittadine, e quelle aristocratiche della corte dei Savoia. (In realtà il libro è molto di più, perchè contiene i saggi di Beppe Lodi sul rapporto mente cibo, una raccolta di menù mensili suggeriti dall’Ordine dei Cavalieri del tartufo, testi di Gigi Marsico e Felice Campanello, oltre alle splendide fotografie di Aldo Agnelli).
La cucina di Langa, meno che altre, può separarsi dai suoi vini. Questo libro lo dimostra benissimo. Coglie l’essenza di un rapporto unico: un intreccio metafisico tra ricette e territorio, tra cibo e vino. Tant’è che a un certo punto del libro si incontra un lungo componimento di Gigi Marsico dedicato, appunto alla vendemmia (si intitola Al Principio il vino è una collina).
Pare che Luciano De Giacomi, goloso sopraffino, amasse leggerne qualche parte ai suoi commensali, come a ricordare la natura, le fatiche, i timori e le speranze che stanno a monte di un buon bicchiere di vino. Il connubio tra cucina&cantina come detto è indissolubile… e di tanto in tanto, dinnanzi a libagioni langarole, anche io e la dolce metà ci atteggiamo a solenni gourmet declamando qualche pezzo di tale poememetto. Il motto che nel tempo ha finito per rappresentarlo è diventato: “il primo a vendemmiare è il riccio” (parafrasi delle parole di Marsico che ho scelto come titolo di questo post): insomma, la fatica della vendemmia, e del buon vino, è talmente epica, sacra, antica e importante, che anche la natura e gli animali selvatici partecipano, ne beneficiano, e si gustano il grappolo di dolcetto più dolce e maturo.
La collina è un mondo, che per quattro stagioni vive in attesa della vendemmia. Gigi Marsico lo rappresenta egregiamente…e anche se viviamo in una realtà accellerata di sessioni di un minuto e mezzo, merita trovare il tempo di leggere tutta la sua lunga poesia.
Buona Vendemmia care colline di Langa, che per amore, siete diventate anche la mia casa!
Al principio il vino è una collina (di Gigi Marsico)
Al principio il vino è una collina. Scirocco e tramontana
curvano le foglie che non sono ancora quelle della vite.
Sul sambuco e il soffione passano nuvole e sereno.
In primavera il fruscio della faina fa sussultare
il fagiano che cova tra l’ortica e l’erba mora.
Dove un giorno, in autunno, nascerà l’uva,
cade la ghianda e si spalanca il riccio della castagna.
Al principio il vino è un piccone e una mazza
portati in spalla un’ora prima dell’alba con il cuneo
di ferro da conficcare in sabbie più dure del sasso;
è il solco che attraversa la collina come una immensa
culla scavata nel tufo per adagiare radici di viti
appena nate, è l’accetta che a luna vecchia
taglia nel ceduo il palo di castagno che darà il via
al primo filare.
Al principio il vino è portare da un sole all’altro
con le mani screpolate dai geli della galaverna mentre
il riccio e la talpa dormono ancora sotto la vigna;
è salire la collina coni mazzi di vimini tagliati
nella ceppaia vicina al ruscello, puliti in inverno
nella stalla dopo la meliga, messi nel mastello
perchè diventino teneri prima di legare il tralcio
al ferro e alla canna.
Al principio il vino è alzarsi alle quattro per andare
a zappare la gramigna e il girasole, è rivoltare la terra
tra i filari dopo aver tolto i germogli cresciuti
sul legno vecchio e i tralci superflui, è legare
con la ginestra quelli che porteranno il frutto.
Soltanto per un giorno il vino è un profumo
dolce, fra il limone e la magnolia: quando
sulla collina passano sciami di api perché
la vite è fiorita e sbocciano i primi grappoli.
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Certi anni non scendono neppure alla fiera
di Alba, il primo sabato di maggio, perché
c’è già il verderame da dare alla vite e bisogna
spandere lo zolfo contro il “marino”. I bruchi
sono tornati ad arrampicarsi di notte
sul tralcio per divorare le gemme ed è
ricomparsa la tignola. Il ragno rosso
è stato visto sulle barbere in fondo alla vigna.
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Nella vigna passano come fantasmi gli uomini-blu….
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Verso la metà di agosto
la vigna comincia lentamente a colorarsi di blu
E qualche volta capita
che alla festa della Madonna della Neve si mangino
già grappoli di dolcetto tutto nero.
Domenica c’è messa grande e in piazza si gioca a pallone con pugno bendato
ma le patate sono ancora da togliere e la botte è piena
di tartaro…Ma sta arrivando l’autunno e l’uva non è ancora al sicuro,
nella botte o nella cantina.
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La prima vendemmia è quella del riccio
che sceglie sempre il grappolo di dolcetto più basso e maturo.
Da quando c’è la vendemmia i due primi filari vicino alle piante
sono per i merli e i fagiani, ma anche la gallina è ghiotta d’uva,
come la volpe che scende di notte dal bricco San Pietro
e i boschi sopra Somano.
Per sapere quando raccogliere, gli uomini guardano al sole.
È lui che decide.
Ma è questione di giorni.
L’immensa flotta di bigonce sta ormai per salpare
verso il mare dei vigneti.
Si va, sotto le nuvole chiare di settembre, verso vigne
che tingono la collina con i colori stremati dell’autunno.
Per i moscati di Santo Stefano e i dolcetti di Diano,
per le barbere di Alba e l’Arneis del Roero,
per gli ultimi filari di Favorita e Pelaverga il sole
ha già cominciato a battere le ore della vendemmia.
Più tardi toccherà ai nebbioli del Bricco di Neive
e a quelli maturati sulle coste assolate dei Cannubi
e negli antichi mandamenti a sinistra del Tanaro.
Le cantine dei più bei reami del vino tornano finalmente a profumare di mosto.
Anche i dolcetti maturano presto,
ma non c’è una data precisa, tutt’al più si guarda la luna.
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Ai primi d’ottobre, quando fra le radici della quercia
e del salice torna a maturare il tartufo,
sono le barbere a sfilare trionfanti
per le strade di quella immensa cantina che da Govone,
ai confini con la vigna astigiana,
si spinge fino a Monforte e a Novello
fra banchi di arenarie e marne azzurrine.
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Dietro ogni porta c’è una cantina con la scala
che sembra tagliata nel tufo ed è lì che ogni anno
le colline diventano vino.
Eccolo scendere limpido, appena spillato dal tino,
a riempire
i bicchieri di tutta la Langa.
Pochi giorni fa pendeva ancora da un tralcio,
adesso è già vino.
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Il vino nuovo è già nella botte pulita e dietro
la cantina il mucchio delle vinacce spande
presagi di grappa
… mentre il sole, che corre già basso sull’orizzonte,
strappa alle foglie appassite dei dolcetti e
delle barbere trasparenze purpuree di vetri cattedrali.
Le prime nebbie hanno incominciato a salire dal Tanaro
e di notte, sulla collina, le luci caute del «trifolao»
guizzano come segnali.
La grande fatica della vigna sembra conclusa.
Ma nelle terre del Barolo e del Barbaresco,
negli antichi mandamenti del Nebbiolo del Piemonte,
al di là del Tanaro, i grappoli pendono
ancora dai tralci distillando gli ultimi zuccheri.
Nei «premiers crus» del Cannubi e del Cerequio,
sulle piste di tufo di Treiso e di Barbaresco,
i vignaioli scrutano il sole e il vicno
impegnati in uno sfibrante «surplace»:
chi parte prima può anche vincere,
ma se il sole tiene
sarà chi vendemmia per ultimo
a pigiare il Nebbiolo migliore.
Eccolo finalmente
reciso dal tralcio quel
grappolo costato
tanta fatica, scampato
alle gelate d’aprile e
alle muffe d’autumnno,
conteso ai bruchi che
di notte gli divoravano
il cuore, strappato
all’insidia del ragno
e della tignola, liberato
dalla gramigna,
sottratto all’oidio e
alla peronospora,
risparmiato alla
tempesta.
Adesso straripa dalla
bigoncia che fa la spola
fra la cantina e la vigna
inseguita da uno sciame
di vespe.
Quel fitto ronzare
intorno ai racimoli
densi di zucchero è
il segno delle annate
trionfali, quando le
chiazze di mosto
restano
appiccicate
all’asfalto, nella piazza
del peso, e dentro la
cesta dimenticata in
fondo alla vigna
i cacciatori trovano
grappoli che sembrano
appena staccati
dal tralcio.
I tuoi articoli sono su un altro pianeta cara Betulla…ce ne sono poche di “blogger” come te (e la definizione mi sembra assai riduttiva).
Grazie di cuore per aver partecipato con un approfondimento così particolare e appassionato, è stato molto bello leggerlo e mi ha fatto tornare voglia di rivedere quelle dolci colline che per me hanno un fascino magico.
Un abbraccio 🙂
COmegiustamente dice ALice prima di me e si sa che io e lei siamo le gemmelle separate senza saperlo, tu vieni da un pianeta diverso…un pianeta meraviglioso dove io vorrei vivere: dove si riflette, studia e respira il sapere delle persone speciali 🙂 Una volta mi hai detto che saresti stata la mia guida fra i castelli e paesaggi piemontesi…ecco, io ci sto pensando ! Il tuo contributo alla giornata di oggi è un’ulteriore invito…bellissimo !
Un abbraccio,
Marina
“Dietro ogni porta c’è una cantina con la scala
che sembra tagliata nel tufo ed è lì che ogni anno
le colline diventano vino.
Eccolo scendere limpido, appena spillato dal tino,
a riempire
i bicchieri di tutta la Langa”
Come è uguale la vendemmia, eppure diversa ogni regione!
Mi sono ritrovata in questo pezzetto di racconto. Ho riconosciuto la stessa fatica, le stesse paure, ho visto lo stesso riccio vendemmiare. Ho solo sostituito Collio a Langa. Ho letto con molto piacere e mi ci ssono persa nel tuo racconto, Grazie di cuore.
Giuliana