Correva l’anno 2000, io avevo 17 anni, da grande volevo fare la cuoca, ma forse anche la scrittrice. Un giorno la professoressa di italiano è entrata in classe e mi ha detto «Beatrice, visto che mi fai sempre temi da 8 fogli protocollo, non è che scrivi qualcosa anche per il 25 aprile?». Detto fatto. Il pomeriggio stesso ero a casa di una cara amica di famiglia per capire cosa potevo scrivere io, ragazzina trasognata, di una cosa seria, e complessa accaduta ben 55 anni prima. Avevo una paura matta: in fatto di scrittura il mio asso nella manica era sempre la mia fantasia sfrenata, ma questa volta certo non avrei potuto romanzare un bel niente per cavarmela bene! Mannaggia alle idee della prof. con vita parallela nella redazione di un giornale locale. Uffa! Per fortuna la mia testimone era una narratrice formidabile: onorata ed entusiasta che qualcuno la chiamasse in causa per una cosa tanto importante, avevo solo dovuto chiederle «raccontami cosa ti ricordi del 25 aprile 1945». Si ricordava tutto! Sono stata con lei fino a sera…quando abbiamo finito fuori era buio, avevamo bevuto diversi caffè con panna e il quaderno che si appiccicava continuamente sulla tela cerata del tavolo della cucina mentre scrivevo, era pieno zeppo di appunti.
Sono tornata a trovarla dopo due giorni. Le ho letto quello che avevo scritto nel frattempo, e lei con in mano la tazzina di caffè alla panna si è messa a piangere. Alla fine ha detto «È proprio così…è stato proprio così». Io ho pensato che doveva essere quello che provavano i grandi scrittori: riuscire a entrare nella testa delle persone e dar loro la voce. Fino ad allora mi affascinava solo la letteratura d’evasione…quella che mi portava lontano, verso altri mondi! Ma quel giorno ho capito qualcosa di molto importante: mi piaceva la Storia. Ero capace di immedesimarmi e raccontare.
La testimonianza (scritta in prima persona in forma di lettera) è stata pubblicata su “Il Maira” del 20 aprile 2000. La ricopio fedelmente con tutte le ingenuità felici di una ragazzina con la penna in mano perché penso che tutto sommato conti più la sostanza che la forma, e anche perché questo è il 25 aprile 1945 in Valle Gesso visto dagli occhi attenti di una bambina di 9 anni.
La sobrietà ai sobri di spirito. A tutti gli altri la memoria…
Buon 25 aprile, vivo, libero e resistente!
“25 Aprile: ti ricordi…”
Caro Giuseppe,
tra qualche giorno è il 25 aprile! Ti ricordi? Non sembra vero, quella che è stata la nostra infanzia ora è storia, storia che i ragazzi studiano sui libri di scuola. Ma noi, il nostro 25 aprile, non è quello che si celebra oggi, discretamente, con qualche finto parolone alla tv. Quel giorno, anche se avevo solo 9 anni, è lì fisso nella mia mente: e mentre tanti altri ricordi mi abbandonano con l’età, quel giorno rimane.
Era mattina, una bella mattina di primavera, tu Tonio, Steve e Culin eravate al “ciabot”, sui monti, nascosti dai tedeschi perché se vi trovavano vi uccidevano (quante volte Magra Teresina mi raccomandava di non dire che avevo fratelli!). Ero proprio al paese con lei, nella casa vera (adesso si chiamerebbe stalla)! Io stavo giocando nel cortile con un rocchetto di filo (altro che le bambole di adesso) quando Don Borsotto dall’alto della sua tonaca nera, con un sorriso, sottovoce mi disse: «Tu che corri svelta, vai a “Teit Rucustùn”, e di’ ai partigiani che la guerra sta finendo, io lo so! Non chiedermi come, ma lo so. Mi raccomando parla solo con l’uomo dalla grande barba! Solo con lui, mi raccomando! Chiedi di lui, è il capo! Ma se non lo trovi piuttosto stai zitta e torna qui! Grazie Gina!». Ed io di corsa, come un camoscio selvatico, conoscevo le montagne come il nostro fienile. Ti ricordi? Anche se eravate più grandi di me, vi battevo sempre nelle nostre gare. Certo, usavo scorciatoie che neanche immagini! Chissà adesso, sicuramente non si trova neanche un sentiero per arrivare a quei casolari.
Prima di andare dai partigiani dovevo passare da voi, era una cosa troppo importane!
Correvo, correvo, inerpicavo, inciampavo. Il sangue caldo colava sulle ginocchia nel freddo del mattino. Ma con quel misto di paura, angoscia e terrore nel cuore come potevo pensare alle mie sbucciature? Era una cosa per cui potevo essere uccisa dai tedeschi! Avevo l’impressione che chiunque mi avesse guardato in faccia avrebbe potuto leggere il mio segreto negli occhi. Era un’angoscia pesante, avevo voglia di fare in fretta a liberarmi di quella notizia. Correvo, correvo e cambiavo continuamente percorso, da una “bialera” una pietraia, da un bosco, a un prato di lavanda…Penso che normalmente per arrivare al nostro tetto ci volesse almeno un’ora, ma quella volta, con la paura nel fiato, impiegai circa mezz’ora. Come vidi la mamma uscire da quel casotto di ardesie a secco che fungeva da cucina, ebbi la tentazione di lasciarmi andare e buttarmi sul prato. Invece no, il mio compito era quello di avvertire i partigiani. Mi sembra ancora di sentirlo adesso papà che ci raccomanda di non immischiarci mai con niente e con nessuno (partigiani, tedeschi o fascisti), ma solo di aiutare chi aveva bisogno. Ti ricordi? E chi più di quei partigiani, nascosti sulle montagne da mesi aveva bisogno di una bella notizia? Una sorsata d’acqua al secchio che tenevamo nel cortile, e poi via verso “Teit Rucustùn”.
Ti ricordi quel sentiero che correva ripido in quella bellissima pineta? Ma io correvo più veloce, per non avere tempo di vedere le ombre paurose che potevano guardarmi da dietro i pini. Arrivata a “Teit Rucustùn” guardai con gli occhi spalancati quel grande spiazzo; frugavo con lo sguardo ognuno di quei miseri casotti. Beppe, Piera, Gianni, Armando, Pietrino, ma lui, l’uomo con la barba, non lo trovavo! E loro che mi guardavano incuriositi, una bimbetta col fiatone che si intrufolava nel loro “nascondiglio”. Amica o nemica? Finalmente lo vidi sulla porta del fienile. Avvicinandomi gli dissi che la guerra stava finendo, che mi mandava Don Borsotto, e senza dargli il tempo di farmi una sola domanda avevo già ripreso a correre a perdifiato giù nella pineta. Tornando al nostro ciabot vi trovai già pronti nel prato davanti a casa ad. Aspettarmi. Se era vero che la guerra stava per finire, dovevamo vederlo con i nostri occhi, papà aveva deciso così. Ricordo ancora che tu avevi una fascina in spalla e il sacco in mano. Dovevamo far finta di scendere al paese per lavoro, di quei tempi la prudenza non era mai troppa! Il ritorno fu molto più tranquillo, anche perché passammo per il sentiero, e poi io non portavo più sul cuore il peso di quella notizia. Ebbi anche il tempo di pensare, non capivo bene cosa stava succedendo, ma mi rendevo conto soltanto che dovevo prepararmi ad un cambiamento importante, anche se in realtà non riuscivo a pensare a una vita senza paure, nascondigli e fughe. Come arrivammo sulla “calà” (versante della montagna che dava sul paese), e papà vide sulla piazza i soldati vi ordinò di tornare al “ciabot”, prendere qualche provvista e scappare attraverso le montagne fino a Santa Lucia, la frazione sopra Entracque dove viveva lo zio. Era vero, forse stava per finire tutto, ma c’era il rischio che prima di andarsene i tedeschi facessero una strage (ed i ragazzi giovani erano le loro vittime preferite). Ti ricordi? Ti ricordi che vi saltai al collo con la paura di non vedervi mai più? Io, papà e mamma, scendendo al paese incontrammo tanti compaesani, tutti spalancavano gli occhi tentando di comunicare con l’espressione ciò che a voce non si poteva ancora dire. Era già pomeriggio, noi eravamo in cucina quando arrivò Brigida che sussurrò alla finestra: «Sta finendo, finita, è finita, partono!». Non aspettavo altro, e sgattaiolando via dal cortile corsi in piazza con altre amichette. Ero curiosa di tutto, tu lo sai, è una caratteristica che ho ancora oggi, figuriamoci se potevo perdermi una cosa eccezionale come due enormi carri armati (o ero io piccola?) e un’interminabile colonna di camion, carretti, soldati per le viuzze del paese. Ed io, incosciente, a guardare tutto dal sagrato della chiesa. Quando penso che avevo in faccia due mitraglie mi vengono ancora i brividi. Proprio di questo papà aveva paura e tentava invano, dal cortile, di richiamarmi a casa. Non so come riuscì a catturare l’attenzione di Bella, mia inseparabile compagna di giochi, così con gran dispiacere tornammo a casa. Ma anche lì c’era qualcosa da vedere: i tedeschi, accampati nel nostro cortile, stavano smontando il campo. Io studiavo ogni particolare seduta sugli scalini di pietra della cucina. Ad un certo punto un soldato (ricordo ancora le stellette dorate che risplendevano sulle spalle della sua divisa) mi fece segno di avvicinarmi. Mamma, che vedeva tutto nel riflesso del vetro della porta senza essere vista, mi diceva di stare ferma, di non muovermi. L’uomo, altissimo, mi tese le braccia, e nelle mani teneva un pacchettino di stagnola. Gli corsi incontro, presi l’involto, lo ringrazia, a modo mio, in dialetto, e poi corsi in casa a rifugiarmi tra le braccia della mamma e a chiederle scusa. Sai cosa conteneva quell’involucro? Un profumato panino nero di segala, quello stesso panino che rimase per anni sull’ultimo ripiano della stagera della cucina, perché se ti ricordi, mamma ci impedì di mangiarlo per paura che fosse avvelenato. E il suo divieto si pose, ahimè, tra la nostra fame e quel bel panino nero. Te le ricordi tutte queste cose, tutti questi avvenimenti, ogni particolare? Ci ripensi mai? Io sì, ogni volta che cammino in un bosco, o sento il profumo di lavanda in montagna, torno, col pensiero a quei giorni… vorrei tanto poter parlare con più persone a cui poter dire ancora «ti ricordi?».
Come mi piace ricordare, forse più che vivere, ma il fondo che differenza c’è?
Scritto grazie alla testimonianza di una cara Amica
Sei grande
Questo era l’anno giusto per tirare fuori questo racconto dal dimenticatoio: è ingenuo e semplice, ma è un pezzettino di storia delle nostre montagne, e non volevo che si perdesse! Grazie
Grazie Beatrice, un racconto bellissimo
Sono davvero molto contenta che tu l’abbia apprezzato…oltre a essere una testimonianza significativa per me è anche il ricordo di una persona speciale! Grazie mille per il commento!
Brava Bea “ora e sempre resistenza”
“morti e vivi con lo stesso impegno / popolo serrato intorno al monumento/ che si chiama / ora e sempre resistenza”
Grazie mille!