Torno a contribuire alla mia amata sezione “Buone letture” con un librino delizioso, che mi sono portata a casa qualche mese fa (avete presente quei pomeriggi d’inverno in cui alle quattro fuori è talmente buio che sembra notte fonda? Bhe, quanto amo quei pomeriggi per entrare a caccia di tesori in qualche libreria sperduta, luminosa e calda?). Sarà stata la carta (la carta Roma Fabriano della Sellerio la riconoscerei tra mille), la copertina delicata e significativa, o le dimensioni lillipuzione del volume, fatto sta che in mezzo a cookbook sempre più grossi, fotografici e scenografici io mi sono trovata tra le mani proprio questo: “Il Libro di cucina di Juana Inès de la Cruz”. Quando sono uscita dalla libreria praticamente l’avevo giù finito, ma l’ho comprato lo stesso perché la storia narrata tra le sue pagine lo rendeva uno di quei preziosi compagni di vita che mi piace tenere sul comodino.

Juana Inés de la Cruz era una suora di clausura vissuta tra il 1651 e il 1695 a città del Messico. Oltre ad essere una monaca (visse per ben 27 anni tra le mura del convento di clausura di San Gerolamo), Juana Inés de la Cruz era una raffinata scrittrice dalla penna originalissima nel panorama della letteratura barocca (e addirittura unica nell’America Latina dell’epoca). C’è solo un problema: questa sua passione per le lettere, sfociava impetuosa in liriche (sonetti e romances) di carattere prettamente profano venate da un pericoloso razionalismo. In virtù del suo intelletto arguto, e delle sue opere (la cui celebrità giungeva sino in Europa), la monaca divenne ben presto una donna di grande successo. Pur rinchiusa nel perimetro del convento (non immaginate una cella però, perchè a San Gerolamo le monache avevano una propria casetta a due piani, con molti agi e addirittura personale di servizio -femminile-), Juana Inés de la Cruz era al centro di un fittissimo intreccio culturale fatto di studi, di libri, di spiriti affini, di corrispondenze, e addirittura di doni, regali preziosi, dolci e dolcetti che andavano e venivano da una parte all’altra della grata claustrale. Naturalmente tante attenzioni mondane verso un’anima così disinvolta e libera, non potevano che essere disapprovate dalle alte gerarchie ecclesiastiche. Così ad un certo punto il vescovo di Puebla, don Manuel Fernàndez, scrive un pubblico monito contro la suora intellettuale, esortandola ad abbandonare completamente le lettere profane per dedicarsi, eventualmente con meno entusiasmo, a quelle sacre. Sì, il cattivo della storia è lui, che particolarmente misogino e accanito verso la poesia di Juana Inés, come verso tutte le nature femminili del creato, al riparo dello pseudonimo, neanche a dirlo femminile, di Suor Filotea le scrive cose davvero amabili come: « Non s’addice tutto questo studiare alla santa ignoranza ch’è dovere di una religiosa; finirà per perdersi, finirà per annientarsi elevandosi tanto a causa della sua stessa perspicacia e acutezza ». Avrà sospettato, l’alto prelato, che Juana Inés era entrata in convento non tanto per vocazione, quanto proprio per poter sfuggire al gambe levate da quella Santa Ignoranza che una qualunque vita coniugale del tempo le avrebbe portato in dote? La suora, comunque, dopo ben 3 mesi di riflessioni, vergò una Respuesta, che letta oggi è una specie di inno personale e accorato al diritto di conoscere, e alla libertà di pensiero. Juana Inés cerca dapprima di inserirsi in una sorta di “genealogia” femminile: una lunga tradizione di donne autorevoli e sapienti che prima di lei hanno esercitato l’arte delle lettere. Ci sono la regina di Saba «dotta sì da osar tentare con enigmi la saggezza del savio tra i savî», le sibille «elette da Dio per profetizzare i più insigni misteri della nostra fede», Nicostrata «inventrice delle lettere latine ed eruditissima in quelle greche», Santa Caterina d’Alessandria «che insegnava e possedeva ogni saggezza dei savî d’Egitto», fino a sue contemporanee, come Cristina di Svezia o la duchessa di Aveyro. La cosa tenera però è che subito dopo Juana Inés inserisce nella sua Respuesta tutta una serie di aneddoti finalizzati a spiegare il suo desiderio di apprendere, e la sua capacità di osservare. E dove attinge la giovane suora? Bhe, proprio a quel grande e curioso mondo che è la cucina.
Racconta del caso della trottola con cui giocavano due bambine e che, sparsa un po’ di farina sul pavimento, non tracciava cerchi perfetti, bensì «spirali sempre meno circolari a mano a mano che l’impulso s’indeboliva». E appena oltre incalza «E che cosa non potrei raccontarvi Signora, dei segreti naturali che ho scoperto mentre cucinavo? Vedo che un uovo si rapprende e frigge nel burro o nell’olio e, al contrario, si spezza nello sciroppo; vedo che, affinchè lo zucchero si conservi fluido, basta aggiungervi una piccolissima parte di acqua in cui sia stata messa una cotogna o un altro frutto aspro (…). Non voglio comunque stancarvi con tali inezie, che riferisco soltanto per darvi intera notizia della mia natura, e, credo, vi faranno sorridere; ma, Signora, che cosa possiamo mai sapere noi donne se non filosofie da cucina? Aveva ragione Lupercio Leonardo, secondo cui si può benissimo filosofare e preparar la cena. E io dico spesso pensando a tali bagatelle: se Aristotele avesse cucinato avrebbe scritto molto di più».
E questa sembra una frasetta da nulla, ma tirando in ballo proprio la cucina come luogo in cui le più alte astrazioni speculative (di norma riservate agli studi maschili) possono incontrare la concretezza pratica del fare quotidiano (di cui le donne sono mute depositarie) Juana Inés auspica un incontro tra il filosofare libresco e il fare dei fornelli (al di là dei generi e delle rigide distinzioni ecclesiastiche).
Eppure Manuel Fernàndez non intese affatto l’intento accomodante, anzi tanto fece che la povera Juana Inés fu ridotta all’obbedienza e al silenzio: costretta a disfarsi della sua ricchissima biblioteca (si parla di oltre quattromila volumi, il fondo librario più ricco della Nuova Spagna del tempo) e degli averi personali, per donare il ricavato ai poveri, smise di scrivere e di studiare, e morì di lì a quattro anni per un’epidemia.

Vi starete chiedendo perchè io fin’ora non vi abbia parlato del “Libro di cucina” di Juana Inés. Bhe semplice, il quadernetto di cucina probabilmente non è nemmeno suo, o meglio, altro non è che la copiatura delle ricette in uso nel convento di San Girolamo al tempo di Juana Inés (è altamente probabile che la suora non si occupasse personalmente delle mansioni legate all’alimentazione). Forse lei ha semplicemente dato una sistemata alle ricette che giravano per la cucina (firmando il manoscritto), o magari vista la popolarità della suora qualche consorella ha pensato di attribuirgliene postuma la gloria. Sarò sincera, la maggior parte del ricettario è lontanissimo dal nostro gusto, e dal nostro modo di intendere il cibo (gli alimenti oscillano pericolosamente tra dolce e salato, tra con una presenza inquietante nello stesso piatto di ingredienti come latte, mandorle, uova, pollo, cannella,uva e zucchero…), le unità di misura sono libbre, scudi, manciate e tazze, e le indicazioni sono quanto mai generiche e approssimative. Insomma, per dirla tutta le “ricette” sono poco più che rapidi appunti per persone che si sono tramandate con e guardi gesti la ricetta vera e propria. Poco importa comunque, il “libro di cocina” è una scusa per entrare nella storia di questa donna incredibile. La trentina di ricette di Juana Inés (vere o presunte), non sono altro che una porticina per sbirciare nella burrascosa esistenza della suora messicana, nei suoi sonetti appassionati, nei suoi pensieri, nella sua biblioteca e anche nella sua solitudine. Angelo Morino, autore della suggestiva introduzione (e traduzione), conduce il lettore in questo tempo lontano, e forse proprio per la la natura apocrifa (o comunque dubbia) del testo riesce a tratteggiare con grazia la figura affascinante di Juana Inés.
Concludo, ma l’avrete già capito che Juana Inés ai margini della Storia e del mondo allora conosciuto, in tempi piuttosto bui, ha anticipato discussioni e rivendicazioni di cui dibattiamo ancora oggi. È per questo, solo per parlare di lei che si legge il “libro de cocina”. Non le improbabili ricette, ma la profondissima vicenda. Che poi si svolge in cucina, o almeno si avvale di quello spazio dove si possono osservare tante di quelle misteriose combinazioni che innescano i pensieri.

Nel “libro de cocina” abbondano i budini, le creme, i latti cotti… Come scritto però, lacune e precarietà rendono difficoltoso seguirne davvero una dall’inizio alla fine. Accontentandomi della pur raffinata ispirazione, condivido quindi la mia ricetta della Crema Catalana (è un po’ una crasi tra “budino alla cannella” e il “latte caramellato” di Juana Inés ). Ovviamente è d’obbligo, mentre la crema cuoce, un pensiero alla suora messicana e alle sue (e nostre) filosofie di cucina…

N.B: per completezza (tanto ormai il post è lunghissimo), aggiungo che la suora molto popolare in America Latina (tanto da essere raffigurata sulle banconote messicane) gode di un nuova recente popolarità anche in Europa: qualche anno fa Dacia Maraini ha scritto uno spettacolo teatrale su di lei (dal punto di vista della sua serva), mentre Netflix propone una serie tv intitolata “Juana Inés” creata da Patricia Arriaga-Jordán (è tutta basata sul presunto amore lesbico tra la poestessa e la viceregina di Città del Messico, di cui la suora era intima amica).
Crema Catalana*
ingredienti per 4 porzioni:
500 ml di latte fresco intero
25 g di maizena
100 g di zucchero bianco
scorza grattugiata di mezzo limone bio
un pizzico di cannella in polvere
4 tuorli d’uovo
per servire:
un cucchiai di zucchero di canna per ogni ciotolina
per fare una crosticina perfetta meglio usare il cannello, che è quella specie di accendino gigante che permette di caramellare la superficie della crema. Costa tra i 10 e i 35 euro ed è un ottimo investimento se amate il genere “crema caramellata” o se nella vostra cucina spennate volentieri polli e pollastri. In alternativa potete ottenere quasi lo stesso effetto con il grill del forno alla massima potenza.Anche la ciotolina è importante per la riuscita del dolce. Le migliori sono quelle apposite in terracotta o in porcellana (di circa 12 cm di diametro per uno spessore di 2). In ogni caso cercate di usare contenitori resistenti al calore (che non si rompano a cantato col calore della fiamma, o comunque idonei al forno).
Procedimento:
-Misura 500 ml di latte. Mettine 4 cucchiai in un bicchiere e il resto in un pentolino. Nel bicchiere aggiungi 25 g di maizena e mescola bene con una forchetta in modo da ottenere una cremina liscia e senza grumi. Scalda il latte con 50 g di zucchero, la scorza grattugiata di mezzo limone bio, e un pizzico di cannella in polvere. Non appena il latte comincia a bollire spegni.
-In una ciotola sbatti 4 tuorli con 50 g di zucchero, poi rovesciaci sopra la cremina di latte e maizena. Mescola energicamente e poi rovesciaci sopra a filo in latte caldo. Quando hai mescolato bene rimetti tutto nel pentolino, e accendi il fornello. Da quando il composto inizia a bollire cuoci per 2 minuti esatti sempre mescolando dolcemente con la frusta. Spegni il fuoco e trasferisci subito la crema nelle quattro coppette.
-Solo al momento di servire fare la crosticina cospargendo la superficie della crema con un cucchiaio di zucchero di canna e caramellandolo con il cannello (in alternativa accendete il forno impostandolo esclusivamente sulla funzione gril. Quando raggiunge il massimo mettete le ciotoline sotto il gril -vicinissime nel ripiano più alto del forno- per 3 minuti in modo che lo zucchero caramelli bene).
*la Crema Catalana pare essere una crema spagnola (detta anche “crema cremada”, ovvero “crema bruciata”) inventata (anche lei) dalle monache di un convento nei dintorni di Barcellona. La differenza rispetto alla più nota Crème brûlée è principalmente nella cottura (la crema catalana cuoce sul fornello, mentre la cugina francese a bagno maria, e nell’assenza di panna tra gli ingredienti). Un tempo lo strato superficiale della crema era caramellato con un apposito ferro a spirale che, arroventato, faceva bruciacchiare lo zucchero. Il ferro si usa ancora in alcuni ristoranti, ma il cannello a gas è molto più comodo.
Riesci sempre a incuriosirmi! Ora proverò anche la serie… Per fare come con (quasi) tutte le altre in costume: le cerco le provo e le abbandono sdegnata! ???
Ahhhh davvero sei una snob delle serie in costume? Ma lo sai che anche io sono difficilissima, e per ora l’unica che ho visto (e rivisto) dall’inizio alla fine è Downton abbey…anzi, ho anche un file zeppo di appunti per farci un post, ma continuo a rimandare! (Mrs. Patmore esercita un grande fascino su di me)! Ora ho provato con Victoria…sono all’inizio, vediamo se non mi stufo! a presto cara civetta
Che storia incredibilmente affascinante!!! La pur golosa ricetta (e le tue splendide foto) passa in secondo piano rispetto alla storia di Suor Inès, raccontata con grazia e passione.
A questo punto vorrei leggere il libro pure io!