Come sempre io parto da un semplice cavolo nell’orto, e poi invece mi infilo in un tunnel di ricerche, fogli, libri e appunti da non credere. Non potevo cuocere il mio cavolo in padella con tanta aria fritta e spacciarvelo come cibo DETOX post bagordi delle feste? No, non potevo! Questo non è solo un cavolo, è un piatto mitico (e purtroppo un po’ desueto) della cucina piemontese, per cui si merita uno dei miei post lunghissimi, esaustivi, e pieni zeppi di curiosità!
Dunque, per prima cosa occorre una nota metereologica: il grande freddo di questi giorni è lo stesso freddo che nei tempi andati era particolarmente propizio all’uccisione del maiale. Un omino specializzato, detto appunto il “masacrin”, vagava di cascina in cascina nel basso Piemonte per uccidere il maiale (crin in dialetto) allevato con tanta cura durante l’anno. La data, naturalmente non era fissa (tra i Santi e Carnevale), ma il lavoro particolarmente lungo e impegnativo richiedeva un clima rigido e la collaborazione (piuttosto gioiosa) di tutti gli uomini e le donne del contado. Il giorno del maiale il “masacrin” arrivava con un gigantesco tritacarne, e le sue borse ricolme di coltelli, raschietti, ganci, imbuti, budella, reti, e cartocci di sale, pepe, erbe. Il risultato di questa grande fatica era un piacevole stravolgimento della cucina famigliare: sangue, fegato, costine e zampini e salsicce fresche andavano mangiati subito perchè particolarmente deperibili (l’occasione di festa era tanto gradita che nelle campagne di pianura si parla di porcataje: vere e proprie feste del porcello)*. Nel frattempo lunghe file di salami, e di cotechini erano state appese sotto la volta della cantina a stagionare: un’importantissima riserva di proteine che si sarebbe consumata nei mesi successivi.
Intrinsecamente legata a questi ricchi insaccati di suino da cottura è proprio il sancrao (si legge “san crau”), che, almeno nel nome dovrebbe essere la trasposizione del Sauerkraut tedesco (reminiscenza del tentativo di fare fermentare i cavoli alla maniera tedesca). Bizzarramente il mondo contadino non adottò affatto il procedimento, quanto invece il nome divenuto, per assonanza “sancrao”. Il termine, separato in due parole distinte, San Crau, finì per diventare uno dei più strani e celebrati “santi piemontesi”** della tavola contadina.
Chiarito che i cavoli del sancrao non sono fermentati (come invece nella più nota Choucroute), ma solo acidulati, va detto che questo piatto è diffuso in tutta l’area collinare del Piemonte meridionale (anche se come dicevo, difficilmente lo troverete in qualche osteria). Le due varianti principali sono con o senza acciuga. Sì, può benissimo sembrarvi un piatto assurdo: cavoli, aceto e acciughe a contorno di un cotechino. Abbiate fede però, perché sotto l’aspetto bizzarro e robusto c’è un contorno buonissimo. Siccome un alone mistico pare ammantare il procedimento (è pur sempre una santa figura), io riporto qui i quattro metodi per preparare il sancrao di cui sono a conoscenza…tutti ugualmente antichi, tradizionali e corretti!
Ah dimenticavo…da queste parti è cosa nota che il grande freddo sia il “condimento” ideale per la verza del sancrao, nel senso che le gelate mattutine migliorano il sapore del cavolo (una specie di “frollatura” per vegetali fatta dal freddo direttamente nell’orto).
*Il Piemonte, come molte altre regioni d’Italia, ha tutta una speciale gastronomia dedicata al giorno dell’uccisione del maiale e ai giorni immediatamente successivi: la zuppa di legumi e cotenne offerta dal padrone al norcino e agli aiutanti del giorno, i sanguinacci di maiale (insaccati di sangue, latte, cipolle, cervella e uvetta), le torte di sangue, le “frisse” (polpettine di fegato e frattaglie avvolte nell’omento tipiche del cuneese), i “batsoà” (zampini fritti), “la brodera” (zuppa di riso, sangue e carne tipica del Novarese/Vercellese, e delle terre di risaie) …
**Secondo alcuni tra i più venerati Santi della regione ci sarebbero “Sancrao, Sangiut e Sanbajon” (cavoli lessi, singhiozzo e zabaione).
1.Sancrao (senza acciughe)
Ingredienti:
un cavolo verza
2 spicchi di aglio
4 cucchiai di aceto di vino rosso
burro, olio extravergine di oliva, sale, pepe nero macinato fresco
l’acqua di cottura di un cotechino artigianale (o 2 mestoli di brodo di carne)
Procedimento:
-Lavare e mondare il cavolo, poi su un tagliere ridurlo in listarelle sottilissime.
-In una padella molto capace scaldare un filo d’olio con una noce di burro, farvi soffriggere gli spicchi di aglio puliti e schiacciati, poi unire le listarelle di cavolo. Cuocere il cavolo coperto per almeno mezz’ora, bagnandolo di tanto in tanto con l’acqua di cottura di un cotechino. A fine cottura salare e pepare, poi unire quattro cucchiai di aceto. Mescolare bene e servire caldo come contorno di un bel cotechino a fette.
2. Sancrao (con acciughe)
Ingredienti:
un cavolo verza
2 spicchi di aglio
3 acciughe sotto sale (se andate di fretta anche sott’olio)
4 cucchiai di aceto di vino rosso
1 cucchiaino di miele millefiori
1 foglia di alloro
burro, olio extravergine di oliva, sale, pepe nero macinato fresco
3 mestoli di brodo di carne
Procedimento:
-Lavare e mondare il cavolo, poi su un tagliere ridurlo in listarelle sottilissime.
-In una padella molto capace scaldare un filo d’olio con una noce di burro, farvi soffriggere gli spicchi di aglio, le due o tre acciughe dissalate e il cucchiaino di miele. Fare rosolare bene, unire poi le listarelle di cavolo e l’alloro. Quando le listarelle saranno belle colorite bagnare con i quattro cucchiai di aceto di vino rosso. Mescolare delicatamente e proseguire la cottura a fiamma moderata (incoperchiato) bagnandolo di tanto in tanto con un mestolino di brodo. La cottura deve essere dolce e lenta (circa 1 ora), per cui l’ideale sarebbe farla sul putagé (la stufa a legna o cucina economica). Infine salare e pepare e servire caldo come contorno di cotechini o arrosto di maiale.
3. Sancrao borghese ( bollitura in acqua e aceto)
Mentre nelle cucine contadine il cavolo viene fatto rosolare a crudo in olio, aglio e acciughe, nelle cucine borghesi è nato l’uso di sbollentarlo velocemente in acqua e aceto per mitigare quelle note acri del vegetale, e renderlo di sapore un poco più delicato.
Ingredienti:
un cavolo verza
2 cotechini
3 acciughe sotto sale (se andate di fretta anche sott’olio)
2 spicchi di aglio
100 ml di aceto di vino rosso
burro, olio extravergine di oliva, sale, pepe nero macinato fresco
Procedimento:
-Lavare e mondare il cavolo, poi su un tagliere ridurlo in listarelle sottilissime.
-Portare a bollore una pentola d’acqua con 50 ml circa di aceto di vino rosso. Farvi sbollentare la verza per 2/3 minuti, poi scolare e fare raffreddare.
-Nel frattempo fare cuocere i cotechini (ben bucherellati con i rebbi della forchetta) in acqua abbondante non salata (circa 90 minuti di cottura).
-Disalare le acciughe e disliscarle. Su un tagliere affettare sottilmente i due spicchi di aglio.
-In una padella scaldare un filo di olio e una noce di burro, unire l’aglio e le acciughe. Tenere il fuoco bassissimo, e con un cucchiaio di legno rimestare il tutto fino a che acciughe&aglio non si saranno completamente “spappolati”(come in una specie di spumosa “mini bagna cauda”). Aggiungere il cavolo sbollentato e ben scolato, e fare insaporire a fuoco dolcissimo per una decina di minuti. Bagnare il tutto con i restanti 50 ml di aceto e proseguire la cottura fino a che le striscioline di verza non saranno trasparenti, ma ancora croccanti (cioè per altri 10/20 minuti al massimo).
-Infine affettare il cotechino bollente e servire con un bel contorno di sancrao.
4. Sancrò alessandrino (senza acciughe, ma con battuto di cipolla e pancetta)
Ingredienti
un cavolo verza
1 cipolla
200 g di pancetta
1 bicchiere di aceto
1 bicchiere di vino bianco
olio extravergine di oliva, burro (circa 100 g), sale, pepe nero
Procedimento:
-Lavare e mondare il cavolo, poi su un tagliere ridurlo in listarelle sottilissime e farle lessare per pochi minuti in acqua bollente. Preparate nel frattempo un battuto con la cipolla e la pancetta, poi mettere il battuto a soffriggere in olio e burro. Quando il grasso della pancetta sarà sciolto, versarvi sopra le striscioline di cavolo ben sgocciolate. Lasciare insaporire per una decina di minuti e poi aggiungete l’aceto e il vino, “fare asciugare” lentamente il tutto con la padella semi-coperta fino a che le striscioline di verza non saranno trasparenti, ma ancora croccanti. Salare e pepare secondo i gusti, poi servire bollente come contorno di cotechini o carne di maiale.
Il “sancrò” un tempo veniva lasciato marinare in aceto per una notte evitando così la lessatura iniziale, mentre il cotechino veniva fatto cuocere direttamente insieme alla verza (oggi si preferisce un piatto più digeribile, con le carni cotte e servite a parte).
Francesca Guglielmero dice
Il sancrau alessandrino, essendo io alessandrina, è quello che conosco meglio e apprezzo di più.
Mia mamma lo serve sempre con il cotechino, è un must nella nostra cucina!
Grazie Betulla per aver pubblicato queste curiosità :*
Irene dice
Che bella descrizione hai fatto! Paese che vai … sancrau che trovi!
Io ricordo il sancrau che faceva mia mamma quando ero bambina.
Le mie origini sono piemontesi “miste”: mia mamma (ed anche sua mamma) proveniva da un paese del Monferrato astigiano ai confini con l’alessandrino, mio nonno materno dall’albese, mia nonna paterna dalla val Pellice e il nonno paterno dal Monferrato astigiano.
Il sancrau di casa era un ibrido : cavolo a striscioline fini, acciughe, aglio, olio (mai burro), aceto e acqua/brodo per cottura. Il cotechino veniva cotto insieme al cavolo.
In realtà però non era un cotechino come quelli di oggi: era un salamotto con il macinato del cotechino ma + leggero. La cotenna era presente perché quando cotto si capiva benissimo (pur essendo ben cotto che si scioglieva letteralmente in bocca); la “pelle” in cui era insaccato era finissima. Non so che budello fosse, ma ti assicuro che era un velo. E poi non era grasso come i cotechini che si trovano oggi. Insomma, era un cotechino-non cotechino, pur non essendo un salame (di pasta di salame da cuocere o di pasta di salsiccia)
Mai + assaporato niente di simile e di tanta bontà!
Con la tua descrizione mi hai fatta tornare a quando ero bambina, quasi quasi sento il sapore al solo pensiero …
Grazie per passione che metti nelle tue ricerche, sono certa che in tanti le apprezzano!
Betulla dice
Cara Irene, ma che dolci parole, e quanti spunti interessanti! Comincio subito col dirti che sicuramnte tanti apprezzano questo piccolo blog (chi amministra un sito internet può vedere molte cose circa i suoi lettori), però in percentuale pochi scrivono o commentano, e ancor meno lo fanno come te con l’intento di costruire un dialogo. Per questo ti ringrazio tantissimo: ogni aggiunta, ogni informazione,ogni ricordo costituisce un tassello essenziale di queste ricette antiche. Io parto da me, dalla mia storia, dalle mie letture, e dalla mia famiglia. Poi interrogo volentieri chichessia: il maccellaio, le signore dal panettiere, la gente in coda al banco della frutta al mercato, i vicini, gli anziani seduti in paese… In questo sono un po’ senza ritegno, nel senso che l’idea che ho in mente ha sempre un bisogno essenziale di confronto. Anche il tuo commento, mi dimostra che la mia conclusione “paese che vai sancrao che trovi” è esatta! Tante sono ricette/non ricette. Scarsamente codificabili proprio perchè diverse in ogni famiglia. Sono molto incuriosita da questo cotechino/salsiccia dalla pelle fine fine. Era preparato in casa? Sono davvero felice che i miei post siano così evocativi per te, e , mi ripeto, è bellissimo che ti venga voglia di raccontarmi i tuoi ricordi! Non smettere ti prego (alla prossima ricetta piemontese finirà che tormento anche te)!
irene dice
Cara Betulla,
il salamotto-non salamotto non era fatto in casa (cioè non era fatto da noi).
Mia mamma lo acquistava in una macelleria che c’era qui (che ora non c’è +). Io ero piccola ed ancora x niente interessata a cosa finiva in pentola e quali le origini/ingredienti/e altro. Mi limitavo ad avere preferenze ed antipatie cibarie (il salamotto era tra le mie simpatie).
Allora nelle macellerie penso si trovassero ancora prodotti provenienti dai contadini della zona … il km zero era già una filosofia di vita … quanto eravamo avanti, ma quanto lo ignoravamo!! (tieni presente che io sono + vecchiotta di te)
Poi da un certo punto in poi (io ero già nell’età scolare delle superiori) ha smesso di far cuocere tutto insieme perché questo fantasmagorico salamotto non si trovava … erano solo + presenti i cotechini come ci sono ora, piccoletti sì, ma comunque cotechini. Ricordo che le macellerie della zona erano state passate al setaccio e niente cotechino non cotechino.
Altro purtroppo non so dire.
Mia mamma ora non è + qui e non sai quante volte mi dico: “caspita, dovevo farmi spiegare, dovevo farmi raccontare, dovevo …” ma ora non posso più.
Come del resto avrei dovuto dare il tormento (come dici tu) anche a mia nonna che arrivava dalla Val Pellice: chissà quante storie, quanta vita da raccontare!
Ora cerco e ricerco, vado alla scoperta delle tradizioni nostre e delle ns montagne facendomi aiutare dalla rete e dai libri che comunque continuo a comperare e a sfogliare con tanto piacere … Vuoi mettere un libro da tenere in mano, da annusare e da sporcare con le mani un po’ impiastricciate? Per fortuna questo ultimo caso mi capita poco 🙂
Ok, il poema è terminato, ti auguro una buona settimana e mi tengo a disposizione per tormenti futuri !!! CIAO
Betulla dice
Irene cara…quanti ricordi in un piatto di cavoli! Hai fatto esattamente come faccio io, che parto da una quisquilia, convinta che probabilmente è una ricetta talmente piccina da non meritarsi neppure un intero post sul blog. E poi scava, cerca, approfondisci e aggiungi che salta fuori uno di quegli articoli zeppi di storia e dettagli. Il salamotto/cotechino doveva essere il sapore di un mondo antico ormai scomparso…(chissà che delizia!). Ma non disperiamo, viviamo in tempi che apprezzano e rivalutano il passato, e magari un giorno ti ricapiterà sotto i denti! a presto
Tommy dice
Mi avete commosso. Io che comincio, da anziano, a dedicarmi alla cucina desidero ringraziarvi per l’aspetto emotivo che traspare dalle vostre dissertazioni … culinarie.
Betulla dice
Caro Tomaso, sono convinta che non sia mai troppo tardi per innamorarsi della cucina! Quanto all’aspetto emotivo…bhe, mi ha fatto un grandissimo complimento (anche l’emozione è essenziale per cucinare bene no?). Grazie di cuore per avermi scritto, un messaggio come il suo mi è di sprone e di incoraggiamento per continuare su questa strada fatta di fornelli e parole…a presto, intanto buona cucina!
Vittorio dice
Grazie per aver ricordato la mistica Brûdera 😊
Betulla dice
…è un piacere, questi piatti antichi e a volte un po’dimenticati sono la mia grande passione! Grazie mille per avermi scritto! 😉