
Girovagando tra libri, ricette, tradizioni e ingredienti mi perdo nei mille rivoli di una “Storia parallela” affascinante e ricca tanto quanto quella più ufficiale e studiata. Di recente mi sono chiesta se l’uomo ha sempre adorato alla follia il formaggio così come noi occidentali facciamo oggi. La risposta è semplice: no! Per tutta l’età antica, e ancora durante il medioevo, pur se apprezzato e consumato, il formaggio era l’espressione alimentare di un mondo rurale estremamente povero. Il formaggio, con la sua connotazione rustica, pastorale e contadina, era il simbolo di una marginalità da cui i più abbienti prendevano volentieri le distanze (è indicativo il fatto che nel De re coquinaria di Apicio, l’unico ricettario di epoca romana giunto sino a noi, il formaggio compare solo ed esclusivamente come ingrediente per produrre vivande più elaborate, ma mai da solo). A questo aspetto di marginalità sociale e geografica, si sommava una forte diffidenza che la scienza medica nutriva verso il misterioso processo di fermentazione e coagulazione, che si traduceva nel consiglio di consumare il formaggio con parsimonia. Insomma, il formaggio arriva al medioevo con una pessima reputazione: cibo da poveri e per di più dannoso! Nella stessa epoca però si impone l’obbligo, per l’intera comunità cristiana, di rispettare precise norme alimentari scandite dal calendario liturgico: se la carne non si può mangiare (nei giorni di vigilia e in quelli di astinenza infrasettimanale), bisogna cercare un sostituto…e i latticini -con pesce e uova- sono lì a portata di mano (così noi ancora oggi, con un bel paradosso nutrizionale, chiamiamo “di magro” tutti i cibi che non contengono carne ma formaggio). Nonostante questa mezza, necessaria, nobilitazione religiosa la cattiva reputazione del formaggio è dura a morire.
Bisogna aspettare il 1477, quando tale Pantaleone da Confienza, medico e professore dell’università di Torino, pubblica una originalissima Summa lacticinorum*, ovvero, il primo trattato europeo specificatamente dedicato ai latticini. Il dottissimo Pantaleone, “protomedico”, cioè capo dei medici di casa Savoia, aveva viaggiato per tutta l’Europa al seguito della nobile famiglia; in questo modo aveva potuto tastare con mano (e assaggiare) l’ampia tipologia (diversitas) che caratterizza il candido mondo dei latticini. La Summa di Pantaleone è particolarmente importante per due motivi: il primo è che Pantaleone regala al formaggio un’immagine totalmente positiva. Con grande abilità retorica smentisce seccamente tutta letteratura scientifica a lui precedente: semplicemente lui distingue, sostenendo che per ogni persona c’è un formaggio più adatto, alcuni vanno bene per i vecchi, altri per i giovani, e ogni temperamento (collerico, flemmatico, melanconico e sanguigno) vuole il suo. Infine, altra grande novità: Pantaleone scrive «ho visto con i miei occhi re, duchi, marchesi, baroni, soldati, nobili mercanti, plebei di entrambi i sessi nutrirsi volentieri di formaggio – e pertanto evidente che tutti lo approvano ». E qui si rovescia definitivamente il pregiudizio secolare che allontanava il formaggio dalla mensa dei nobili. Dalla Summa in avanti il gusto vincerà su ogni credenza, e i poveri come i ricchi, avranno la gustosa libertà di amare e consumare questo incredibile derivato del latte.
Sabato scrivevo sulle mode alimentari e sulla loro forza… oggi torno a rifletterci passando dalla porta della Storia: pensate che nei secoli successivi il formaggio sarà talmente apprezzato dalla famiglia reale sabauda da rendere necessaria a Corte la presenza di uno specialista assunto esclusivamente per fabbricare i tomini per la tavola del re.

La ricetta di oggi è infatti dedicata a questo piccolo formaggio fresco ancora oggi molto amato in tutto Piemonte, benchè un po’ trascurato, vuoi per la sua semplicità, vuoi per la quantità di titani inarrivabili che affollano i mondo caseario piemontese. Siccome il Piemonte è tanto importante nella storia dei formaggi, ne ho cercato uno che rappresentasse un po’ tutta questa ricca regione (e dalla pianura ai monti ogni località, con lievi differenze ha il suo tomino fresco). La ricetta, anche questa volta, è estremamente semplice, ma riesce a trasformare un pallido e lattoso tomino in una merenda sinoira** di carattere. E non è poco.


*Un esemplare della Summa Lacticinorum stampato nel 1477 dal tipografo Jean Favre è alla Biblioteca Nazionale di Torino. L’incunabolo è stato esposto al pubblico lo scorso anno (2014) in occasione di una bella mostra che la Biblioteca ha dedicato al 540°anniversario dell’introduzione della stampa a Torino. Per chi volesse sbirciare la Summa con più agilità è in commercio una bella edizione curata da Slow Food.
** La merenda sinoira è la versione popolare e piemontese del brunch domenicale, non è però l’unione tra la colazione e il pranzo di chi ha fatto qualcosa il sabato sera (e ha dormito fino a tardi il mattino dopo), ma la commistione tra merenda pomeridiana e la cena di chi ha fatto qualcosa la domenica mattina, e alle 16.30 del pomeriggio si ritrova con una fame da lupo. Solitamente una merenda sinoira si risolve senza tanti fronzoli: pane, salame, e volendo qualche acciughina al verde, tomini. E naturalmente vino rosso, robusto!
TOMINI AL VERDE (o ELETTRICI)
Ingredienti:
6 tomini freschi
un bel ciuffo di prezzemolo
3 spicchi di aglio
½ peperoncino piccante
aceto di vino rosso
olio extravergine di oliva
pepe nero macinato fresco
sale
(eventualmente un cucchiaio di salsa al pomodoro)
Procedimento:
Tomino Elettrico è il nome popolare e relativamente recente di una variante piccante dei più classici Tomini al Verde. Per questi ultimi si trita finemente il prezzemolo insieme all’aglio, poi si mette il composto in una ciotola e vi si aggiungono olio sale e pepe sino ad avere una salsa con cui ricoprire i tomini spruzzati d’aceto. Nella variante “elettrica” insieme a prezzemolo e aglio si trita anche un bel pezzo di peperoncino fresco (ed eventualmente -specie in estate- si amalgama il tutto con un cucchiaio di salsa pomodoro). In entrambi i casi poi si unge una terrina, o un vaso si vetro, si mettono due cucchiai di salsa sul fondo, si sistemano i tomini e li si spruzza di aceto di vino rosso. Coperti con il resto della salsa si lasciano riposare in frigorifero per almeno 48 ore prima di consumarli.
Da brava piemontese adoro i tomini e mi piace condirli nei modi più svariati 🙂
Ti mando un bacione 🙂
Una ricetta che invita all'assaggio 🙂
Complimenti!
Ho letto con molto interesse l'articolo ed ora mi gusto virtualmente la ricetta: da piemontese conosco bene i tomini elettrici e ne vado matta!