Oggi vi porto a Pienza, nel cuore della Val d’Orcia, sulle splendide colline a sud di Siena. Parlare di Pienza significa prima di tutto parlare della «città ideale», ovvero di quel concetto di insediamento urbano filosofico e razionale tanto caro al Rinascimento, e in generale un po’ a tutta la storia dell’Umanità che da sempre cerca di trovare l’equilibrio tra l’utopia e la funzionalità del luogo in cui vive. Nel Quattrocento il tema era particolarmente sentito e dibattuto tanto che Papa Pio II (al secolo Enea Silvio Piccolomini), decise di ristrutturare il borgo di Corsignano, in terra senese, per trasformare il proprio minuscolo e fatiscente villaggio natio in una città ideale scesa in terra, o meglio, costruita in terra ad opera dell’architetto Bernardo Rossellino.
In poco più di tre anni il progetto divenne realtà, e il centro storico di Corsignano venne rifatto completamente. Sulla piazza principale, seguendo un’impianto trapezoidale sorsero i principali edifici del potere politico e spirituale: il Duomo, Palazzo Piccolomini (la residenza estiva del Papa), la sede vescovile e il Palazzo Comunale. Il progetto improntato sulla sobrietà e sull’ordine (molto distante dall’anarchia delle forme dell’abitato medievale) fu esteso presto al resto del piccolo paese, anche se a causa della morte di Papa Pio II non venne mai portato a termine completamente.
Dal 1996 l’unicità e l’importanza dell’assetto urbanistico di questa cittadina color miele (il travertino), è tutelato dall’Unesco, rendendo Pienza meta di turisti (numerosissimi) che amano perdersi tra le sinuosità della Val d’Orcia.
E così vi ho raccontato il lato “Artistico” della mia gitarella. Ma essendo questo un blog di cucina non posso negare che sono stata attratta a Pienza anche da suo celeberrimo “cacio”, cioè il Pecorino di Pienza. Questo formaggio vanta origini ancestrali, ma anche se pare fosse il cacio prediletto di Lorenzo il Magnifico, si può dire che l’odierno Pecorino di Pienza sia un’evoluzione moderna di quello che era l’antico formaggio locale. Con il boom economico anche la Val d’Orcia aveva subito un considerevole spopolamento: i giovani preferivano spostarsi in città abbandonando la pastorizia e l’agricoltura, e gli antichi borghi della zona andavano morendo poco a poco. Vista la grande disponibilità di pascoli, alcuni pastori sardi pensarono di portare proprio qui in Toscana le loro greggi, e anche la loro indiscussa maestria nella lavorazione del latte di pecora. Così, dall’unione tra i terreni argillosi e i pascoli ricchi di erbe aromatiche della Toscana, con la pastorizia sarda è nato (o meglio è rinato) uno dei formaggi più famosi e amati d’Italia.
Sembra che uno dei segreti della proverbiale dolcezza di questo cacio sia il caglio di vitello (nel Pecorino Sardo si usa quello di capretto), se non addirittura un caglio vegetale ottenuto con il cardo selvatico macerato in aceto e sale! Ma oltre ad aromatizzare in maniera determinante il latte delle pecore sarde allevate allo stato semi-brado, le colline della Val d’Orcia contribuiscono anche alla stagionatura del Pecorino. Le piccole forme, salate a secco e cosparse di olio d’oliva (o di concentrato di pomodoro) vengono infatti fatte stagionare per 90 giorni all’interno di barriques di rovere precedentemente utilizzate per il vino conferendo al formaggio un caratteristico retrogusto tannico di vinaccia. Ovviamente esistono pezzature molto diverse di Pecorino di Pienza (in genere da 900 g a 1,6 kg), e anche differenti stagionature (ci sono ruote che raggiungono i 18 mesi).
Ma vi basterà fare una bella passeggiata nella via principale di Pienza, dentro e fuori dalle notevoli botteghe di formaggio e altre golosità, per rendervi conto della varietà di sapori che può assumere questo formaggio straordinario. A parte le degustazioni finalizzate all’acquisto, non posso che consigliarvi di entrare in uno dei ristorantini/bistrò del paese per consumare direttamente uno dei tanti piatti che vedono il Pecorino di Pienza come protagonista. Io ho adorato i pici cacio e pepe (i pici sono un formato di pasta sia fresco che secco tipico della zona, ma non fatevi distrarre dalla cacio&pepe romana, qui il protagonista è un pecorino fresco che regala al piatto una grande cremosità), il Pecorino alla piastra con lardo e tartufo nero, e le fondutine di pecorino, il tutto abbinato con Vernaccia (l’ideale per il cacio fresco dolce e burroso), il Chianti o il Rosso di Montalcino (per i pecorini più stagionati).
Concludo infine con la terza buona ragione per pensare di passare una giornata a Pienza, cioè la bellissima Pieve dei Santi Vito e Modesto di Corsignano a circa un km dal centro della cittadina: l’ideale per fare quattro passi dopo aver mangiato pranzo (all’ingresso del paese il sentiero è ben segnalato). La chiesetta romanica, con il suo particolarissimo campanile, si trova in un locus amoenus di grande fascino: una specie di poggio tra gli alberi che affaccia sulla valle con vista sino al monte Amiata. La Pieve era una delle tappe della celebre via Francigena, e oltre a chiedermi cosa poteva pensare, vedere o provare un pellegrino medievale in cammino per queste colline sono rimasta incantata dall’atmosfera suggestiva di questo luogo sacro. Prima ancora di entrare stupisce la facciata che reca una singolarissima bifora: la colonnina centrale è una figura femminile, una specie di cariatide per me incredibilmente simile alla “conca abruzzese” (il contenitore di rame con cui le donne andavano a prendere l’acqua alla fonte: le braccia appoggiate alla vita e i fianchi larghi).
Sul portone d’ingresso, come architrave, si trova un bassorilievo davvero curioso, che probabilmente si dovrebbe “leggere” come due scene distinte partendo da sinistra: la bestia serpentiforme induce in tentazione l’uomo trasformandolo e ponendogli accanto un essere mostruoso (la sirena dalla spina bifida, bestia tra le bestie, che in tanti casi si può dire anche donna/serpente). Al contrario nella scena di destra l’uomo tiene la bestia in pugno, come per strangolarla ed ha accanto una donna vera e propria (con gonnella?) che tiene per mano, forse nell’illuminazione della vita cristiana lontana dai peccati. La misteriosa, e un po’ inquietante, presenza del serpente torna anche all’interno della Pieve, particolarmente sobria e priva di decorazioni, ad eccezione di due serpentelli scolpiti su un capitello dell’ultima colonna della navata sinistra verso l’altare. Pare si tratti di una rara rappresentazione del “serpente regolo”, essere leggendario simil-basilisco che popola le tradizioni, le paure e forse le montagne di Toscana, Abruzzo, Lazio ed Umbria da qualche millennio.
L’occhio attento coglierà molti altri simboli misteriosi e purtroppo indecifrabili sparpagliati nell’atmosfera rarefatta della Pieve (imperdibile la piccola cripta da cui si accede accanto all’altare della navata destra), ma come sempre scartando le ipotesi esoteriche alla Giacobbo rimane il fascino indiscusso di un luogo che sembra essere stato sacro per popoli molto diversi attraverso i millenni (nei dintorni si trova una piccola necropoli etrusca i cui manufatti hanno forse influenzato le decorazioni della chiesa).
A presto amici cari, spero di cuore che anche questa pagina del mio “diario toscano” vi sia piaciuta!
NB: come sempre TUTTE le foto sono mie, chi ruba incappa nella maledizione serpentina! E ho detto tutto…
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