Cari amici oggi vi racconto una storia alquanto singolare. Si avvicina La Fiera Fredda la prossima (1-5 dicembre 2023) sarà la 454° edizione. In più occasioni ho parlato di questa storica manifestazione che ogni anno sul finire dell’autunno coinvolge comune di Borgo San Dalmazzo. Anche se ho dedicato diversi post agli aspetti gastronomici di questo evento (i piatti classici per scaldare ossa e animi nei giorni di fiera erano la minestra di trippe, le lumache alla borgarina e il cotechino con i crauti), mi son sempre fatta un cruccio di non aver scritto qualche bella pagina su uno degli aspetti più curiosi e originali del “cibo da Fiera Fredda”. Sto parlando del fatto che in quel di Borgo San Dalmazzo e dintorni, spesso le lumache vengono servite semplicemente bollite, accompagnate da un piccolissimo curioso chiodo dalla testa quadrata per estrarre il mollusco dal guscio. Ora tutti liquidano la curiosità spiegando a pappagallo che si tratta di un’usanza antica, derivata dall’abitudine dei cartunè (i mulattieri) di usare un chiodo del ferro dei loro animali per mangiare le famose lumache. Io naturalmente vado oltre perché come “amuse-bouche” prima della ricetta vi delizio con la bella leggenda bacucca e ormai dimenticata che sta dietro a questa bizzarra posata. La riporto così come l’ho ascoltata molti anni or sono, assicurandovi che è un “condimento” straordinario per acuire il sapore delle lumache “alla cartunera”.
LA LEGGENDA DEI TRE CHIODI DI RUSS
Tutto ebbe inizio un gelido giorno di tardo autunno, sul calar della sera, quando tale Marcel, detto “Russ” per la sua folta barba rossa, arrivò in vista delle prime case di Aisone in alta Valle Stura. La giornata era stata eterna, forse erano più di dodici ore che Marcel camminava accanto al suo mulo, e a furia di marciare e dormire all’addiaccio quasi aveva perso il conto dei giorni… Nonostante la fatica però il suo prezioso bagaglio di sale e olio caricato nell’entroterra nizzardo era quasi giunto a destinazione: in Valle Stura Marcel respirava già aria di casa (Borgo San Dalmazzo a fondovalle era a una manciata di km). Le luci accese nelle case ammiccavano sornione e il profumo di cipolla fritta che correva per le stradine convinse Marcel a concedersi un pasto all’osteria seduto al caldo su una bella panca di legno. La pausa sembrava gradita anche al mulo Murin, che si fece legare senza storie accanto ad un giovane puledro. Marcel, scaricato il basto per paura dei ladri, entrò trionfante nell’osteria facendosi avvolgere di colpo dalla luce, dai profumi e dal calore domestico del piccolo locale con le volte a botte saturo di avventori. C’era ancora un posto accanto ad una piccola finestrella rattoppata dalla quale si vedeva la strada: Marcel si sistemò lì in modo da monitorare il suo mulo dal carattere fumantino. Neta (Annetta) la locandiera arrivò subito a prendere l’ordinazione. Era tardi, ma in cucina c’erano ancora il minestrone di cavoli, la frittata di cipolle, le trippe in umido, la polenta concia e lo stufato con le patate. Neta, generosa di petto e di cuore, aveva sempre un occhio di riguardo per quei clienti che pendolavano tra Italia e Francia. Li riconosceva con un’occhiata, e li trattava sempre bene in virtù del suo fratello minore, in braccio alla stessa sorte di viaggiatore transfrontaliero. Infatti con un sorriso disse sottovoce a Marcel che c’erano anche le lumache. Veramente avrebbe dovuto servirle solo l’indomani a pranzo, ma per quel ragazzo allampanato, esausto e infreddolito faceva volentieri un’eccezione. Detto fatto, Marcel ordinò proprio le lumache: calde, sazianti e nutrienti come lo stufato, ma ben più abbordabili per le sue povere tasche di mulattiere. In un batter d’occhio Neta fu di ritorno in sala con un bel piattone ricolmo di gusci a spirale unti e profumati di aglio e prezzemolo. Finalmente un pasto vero dopo giorni e giorni di pane di segale secco e formaggio duro. Marcel non ebbe neppure il tempo di pensarlo, che tre ragli potentissimi in strada zittirono l’intera osteria. Di colpo cessarono anche i rumorosi colpi sui tavoli e le urla dei giocatori di mura (morra). Il mulo di Marcel ragliava più forte anche degli infervorati nella febbre del gioco. In un lampo tutti erano fuori in cortile. Chi tifava per il mulo, chi per il puledro, chi incitava quel “rosso” mezzo francese, chi lo tirava per il bavero…Insomma la sonora scalciata tra equini era diventata ben presto una sonora zuffa tra umani: un manesco diversivo in una sonnolenta serata qualunque che si risolse ben presto in qualche botta, numerose imprecazioni, le mantelle di lana nera tutte sporche di fango e ammaccature sparse. Faceva troppo freddo per tirarla per le lunghe…il cielo era basso e prometteva neve, era quasi inverno e ben presto tornarono tutti dentro, compreso Marcel che con in mano il ferro perso dal suo mulo riguadagnò stordito il suo tavolo e le sue lumache ormai fredde. Bella roba: dicevano che un ferro portasse fortuna…ma lui avrebbe preferito la sua cena tranquilla che quella “buona sorte chiodata”. Già, insieme al ferro c’erano anche tre chiodini. Marcel era pensieroso: non gli piaceva farsi una cattiva fama, già lo additavano per quei capelli rossi, già faceva un lavoro assurdo a cavallo tra due mondi…quella scazzottata non ci voleva! Che beffa pensare che un ferro portasse buona sorte: per lui sarebbero state solo rogne. Ancora, di nuovo. Come se non bastasse da sola la sua vita di miseria in simbiosi col suo mulo. Eppure dicevano tutti così, tanto valeva crederci un po’…sperarci almeno. Non voleva pensare che dopo cena avrebbe dovuto anche andare a cercare un maniscalco disponibile a ferrargli il mulo prima di ripartire. Così si mise a fantasticare: cosa ci avrebbe fatto con quella fortuna? Un chiodino l’avrebbe portato a casa a Magna Ghitina (zia Margherita), che l’aveva allevato come un figlio e che ora era anziana e piena di acciacchi. Vorrei che stesse bene e che a dicembre potesse andare ancora una volta alla Fiera Fredda, pensò Marcel assorto. Con il secondo chiodino ci farò un anello per la morosa: Cia (Lucia) aspettava da così tanto tempo di diventare sua sposa che probabilmente aveva perso le speranze! Povera Cia, lui le voleva bene, ma essere sempre in giro per il mondo non aiutava a metter su famiglia! E il terzo…il terzo non sapeva…Marcel prese a girarlo rigirarlo tra le mani, poi cominciò a giocherellare con il bordo del piatto. E improvvisamente si ricordò delle lumache. Per quella stupida scazzottata ormai erano fredde! Mannaggia a quell’attaccabrighe di mulo Murin, e mannaggia anche a sé stesso quando gli era venuto in mente di fermarsi all’osteria! Sarebbe stato più saggio tirare dritto che fermarsi lassù tra quei perdigiorno! Ormai però era fatta: le lumache erano ordinate, e anche da fredde a guardarle bene sembravano appetitose. Meglio che niente. Meglio che solito il tozzo di pane nero con il formaggio. E così gli venne naturale usare quel chiodino tutto gherso (storto) per estrarre le lumache ormai fredde e un po’ gommose dal guscio …il chiodo aveva la curvatura perfetta e una chiocciola dopo l’altra Marcel arrivò al fondo del piatto. Dal bancone Neta, e di sottecchi molti altri avventori, l’avevano guardato mangiare sbalorditi. Non si era mai visto uno mangiare le lumache così. Quello ne sa una più del diavolo, disse un vecchio col cappello nero calato sugli occhi non appena Marcel pagò il conto e uscì dall’osteria…d’altronde è dei “russ”: rosso come il fuoco, rosso come il diavolo. Marcel non aveva ancora lasciato il paese che già le chiacchiere si rincorrevano, ingrossandosi di bocca in bocca: «giù all’osteria si è fermato uno magro come la morte, ossuto, torvo. Aveva un mulo insieme, ma forse era un diau (diavolo). È partito il mulo a scalciare che sembrava un’anima del purgatorio. Poi lui ha fatto a botte con tutti. Mecu poi la notte ha ferrato il mulo, ma ha detto che se quello chiamava “Murin”, il mulo rispondeva ragliando come una persona! Neanche Toni l’ha buttato giù, e guarda che Toni è poi grosso, è una “pianta d’uomo”. Lesi voleva sistemarlo con quattro patele (botte) ben date, ma ha dato un pugno a un corno e si è fatto male a un dito. Forse se l’è rotto. Capisci? Tra i capelli rossi quello aveva un corno! Certo che era un “diau”! Pensa che Carlin ha visto delle scintille sotto il suo mantello mentre cercava di prenderlo a pugni… dicono che nel basto aveva dell’oro, e mangiava con un chiodo arrugginito, no, luccicavano, eran proprio delle saette. Insomma era rosso anche lui, come il diavolo!».
Il mattino mentre la campana rintoccava il mezzogiorno Marcel entrava con il suo mulo Murin in Borgo San Dalmazzo. La prima neve imbiancava lieve ogni cosa, e lui si sentiva leggero e allegro per essere arrivato a casa tutto intero (solo un po’ ammaccato) con il suo prezioso carico. Non vedeva l’ora di rivedere sua zia, e soprattutto abbracciare Cia. Voleva solo mangiare da cristiano, dormire nel suo letto e dimenticare quell’inutile scazzottata, le paure del viaggio, il freddo le notti sotto le stelle e la vita da vagabondo delle montagne. Di sicuro per un po’avrebbe evitato come la peste le osterie… ancora non sapeva che i tre chiodini gli avrebbero portato davvero buona sorte, e ancora non sapeva che Neta, locandiera rubiconda, da quella sera, ispirata dall’ingegno di quell’avventore in odore di fiamme infernali, avrebbe servito ai suoi ospiti le lumache in umido con i chiodini da maniscalco come posata. In fondo un chiodo storto recuperato dalla fucina del marito costava molto meno di una forchetta, e funzionava anche meglio… Che tutti quegli ubriaconi se ne andassero in malora, con le loro chiacchiere, pensava Neta con trasporto da commerciante: se quel Marcel di “russ” era davvero il diavolo, lei gli era riconoscente!
Fu così che in tutta la Valle Stura, a Borgo San Dalmazzo e nei paesi dei dintorni si diffuse la bizzarra abitudine di servire le lumache con il chiodo del maniscalco, lumache “alla cartunera” cioè con sale e olio e poco altro, come piacevano ai numerosi mulattieri che per secoli, indefessi, hanno percorso la via del sale da un lato all’altro delle Alpi.
LUMACHE DEL CARTUNÉ
(per circa 4 persone)
Per questa ricetta occorre fare una precisazione: un tempo le lumache bollite nel loro guscio venivano spesso servite direttamente ai commensali nelle preparazioni “in umido”. Era quindi necessaria una posata appuntita (o nei dintorni di Borgo San Dalmazzo di un chiodino per ferro di cavallo) per estrarre la polpa dal guscio. Il commensale poi scartava personalmente, di lumaca in lumaca, la parte finale del mollusco (un po’ come capita a volte con le “teste di gamberi e gamberoni”). Oggi invece quasi nessun ristorante serve davvero ai clienti le lumache subito dopo la bollitura nel loro guscio, perché si preferisce prima rimuovere il cosiddetto “tortiglione”, ovvero l’apparato digerente e altri organi viscerali che possono avere un gusto amaro. Allo stesso modo in Piemonte, soprattutto nella ristorazione professionale e per quanto riguarda l’uso di chiocciole come l’Helix Pomatia e l’Helix Aspersa (quindi non le “cozzelle di campagna”-Theba Pisana- o le rigatelle – Eobania Vermiculata Bocca Bianca e Otala Lactea Bocca Nera-) trovo siano più frequenti piatti che prevedono come ingrediente base le lumache già sgusciate (ovvero preparate con una lunga lessatura in un brodo fortemente aromatico) che non quelli dove gusci e polpa cuociono insieme .
In pratica attualmente tutte quelle ricette che prevedono le lumache portate in tavola nel loro scenografico guscio (“alla parigina”, “escargot à la Bourguignonne”, “alla borgognona”…) non sono che un bel “metodo di servizio”, diciamo “una finta golosa”, perché le lumache sono re-inserite nei gusci solo in un secondo tempo dopo la bollitura. Ebbene sì, anche la nostra ricetta “alla cartunera” viene in genere realizzata così, come dimostra anche il fatto che una volta occorreva un chiodino usato del cavallo, ovvero ritorto e curvo, per riuscire a estrarre la polpa dal guscio, mentre oggi è più che sufficiente un chiodino lungo, appuntito e nuovo di zecca. Poi naturalmente ho scritto “in genere” perché questo è quel che ho dedotto dalla mia esperienza: non è verità una di fede!
In ogni caso, dato che le “lumache del cartunè” si intingono molto semplicemente in una “salsa” fredda, la loro bollitura in brodo aromatico dovrà essere più lunga rispetto a quelle preparazioni in cui le lumache cuociono ancora successivamente. Inoltre occorre considerare che in questa ricetta il sapore schietto e sincero delle lumache sarà predominante (l’intingolo di olio ed erbe lo esalta, ma non lo copre, né lo cambia), quindi la scelta delle verdure e delle erbe aromatiche con cui fare il brodo ha qui una grandissima importanza. Infine sottolineo che bisogna portare in tavola le lumache bollenti, in gusci caldi e piatti riscaldati (se avete bollito le lumache qualche ora prima, per servirle tuffatele nuovamente in un brodo fatto appositamente con cipolle, sedano, carote, aglio prezzemolo e alloro, per circa 2 minuti).
La ricetta che segue parte dalle lumache già lessate. Questa preparazione di base presenta sostanziali differenze a seconda che usiate lumache opercolate (in letargo invernale) o meno; a seconda della varietà di lumache (l’Helix Pomatia è più grande e cuoce in più tempo rispetto all’Helix Aspersa), e ancora a seconda del metodo che scegliete (c’è chi preferisce una scottatura rapida cui segue la rimozione del tortiglione e poi una seconda bollitura, e chi passa direttamente a una lunga cottura di 2 o persino 3 ore). Cuoco che vai, teoria elicica che trovi! Se non vi raccapezzate in questo mondo alquanto scivoloso, nulla vieta di utilizzare polpa di lumaca già pronta fresca (la si trova comodamente in molte gastronomie di Borgo San Dalmazzo) o conservata al naturale (in lattine e barattoli di vetro), o ancora surgelata (previa cottura di circa 80 minuti). Come ho detto tenete presente che in questa ricetta il sapore della lumaca è quello che nei programmi televisivi a tema viene definito “in purezza” (o quasi), quindi comunque usare le lumache fresche ha un peso considerevole e positivo sul risultato finale.
Ingredienti per circa 4 persone:
300 g di lumache fresche bollite in un brodo aromatico* per circa 2 ore e mezza
circa 50 gusci a parte
Ingredienti per la “salsa del cartunè”:
un mazzolino di prezzemolo (solo le foglie)
3 foglioline di salvia piccole (le più tenere)
4 o 5 aghi di rosmarino fresco
4 o 5 foglioline di origano fresco
Un rametto di timo (solo le foglie)
Peperoncino (fresco un pezzetto oppure secco un pizzico)
Sale fino (la punta di un cucchiaino da caffè)
Aceto di vino rosso (un cucchiaino da caffè)
Olio extravergine di oliva (10 cucchiai da minestra)
Pepe nero macinato fresco
4 spicchi d’aglio mondati, pelati e privati dell’anima, da lasciare in infusione nell’intingolo per almeno mezza giornata
*Ingredienti per il brodo della lessatura (utile anche per “riscaldare” rapidamente le lumache prima di servirle”):
2 cipolle bianche medie
2 gambi di sedano
4 spicchi di aglio pelati
un ciuffetto di prezzemolo
5 foglie di alloro fresche
Procedimento:
Preparate subito l’intingolo del “cartunè” (acquisirà sapore con il riposo di almeno mezza giornata):
– Mondate, lavate e asciugate bene in carta da cucina gli aromi freschi (prezzemolo, salvia, origano, timo, ed eventualmente un piccolo pezzettino di circa 1 cm di peperoncino fresco). Con la mezzaluna su un tagliere tritate tutto finissimamente e tenete da parte.
– In una ciotola versate il sale, scioglietelo nel cucchiaino d’aceto mescolando energicamente con i rebbi di una forchetta, oppure con una piccola frusta. Unite poco a poco l’olio (sempre mescolando), e aggiungete gli aromi freschi tritati e un pizzico di pepe nero macinato fresco. Pulite e pelate gli spicchi d’aglio lavati e asciugati. Tagliateli a metà e rimuovete l’anima verde. Aggiungete anche loro all’intingolo, mescolate e coprite con pellicola alimentare. Riponete questo intingolo al fresco per almeno mezza giornata prima di utilizzarlo.
-Eventualmente preparate le lumache lessandole nel brodo.
-Bollite i gusci in acqua e sale per 10 minuti circa, poi scolateli e asciugateli bene su carta da cucina.
-Preparate con cura la mis en place ricordando che la pinza per lumache andrà a sinistra del sottopiatto, mentre la forchetta per lumache a due rebbi oppure il “chiodino del cartuné” andrà a destra del sottopiatto e dei coltelli (questi chiodi nuovi per ferrare i cavalli/uso pseudo alimentare si trovano comunemente nelle ferramenta, almeno a Borgo san Dalmazzo e dintorni)!
-Al momento di servire le lumache fate in modo di avere il brodo pronto a leggera ebollizione, “la salsa del cartuné” a temperatura ambiente (meglio prevedere di dividerla facendone una ciotolina per ogni commensale), i piatti appositi per lumache (con 6 o 12 fossette) già scaldati in forno con i gusci pronti nelle fossette.
-Tuffate le lumache nel brodo bollente per circa 2 minuti, scolatele bene, inserite una lumaca in ogni guscio. Servite caldissime: ogni commensale estrarrà la lumaca dal guscio con il chiodino intingendola con gusto nell’intingolo prima di mangiarla.
Vincenzo Rendina dice
Che storia affascinante, anche la scrittura, davvero piacevole. Mi sono sempre piaciute le storie di questi personaggi misteriosi, un po’ marginali rispetto alla comunità, animati di coraggio, di forza, di intelligenza e di volontà, che, con l’aiuto di animali prodigiosi, univano mondi vicini, ma anche diversi. Con il loro lavoro instancabile, spesso portato avanti nel buio della notte, sotto le intemperie, svolgevano utili benefici alle comunità. Come non menzionare la figura positiva e fiduciosa di Annetta, straordinaria per sensibilità, acume e buon cuore. Questi personaggi, Marcel e Annetta, sorprendenti e veri a modo loro, sanno dare svolte innovative in una storia di comunità sempre uguale, appiattita su se stessa e su credenze ingenue.
Grazie!
Vincenzo rendina
Betulla dice
Caro Vincenzo sono davvero contenta che abbia letto con interesse e apprezzato questa vecchia leggenda. Ha personaggi curiosi e spiega in maniera divertente l’origine di questa usanza tanto bizzzarra! Grazie davvero per il commento…a presto