Come sapete da altri miei post a zonzo per il Cuneese, ho eletto a mio personale e assurdo mentore tale Euclide Milano, dimenticato storico ed etnografo (lui si definiva folklorista) che all’inizio del secolo scorso ha contribuito in maniera determinante alla cultura nella Granda (ha fondato i musei civici di Bra e di Cuneo, e ha raccolto con passione usi e costumi delle nostre montagne che senza di lui si sarebbero perduti per sempre). Tra le sue pubblicazioni più interessanti c’è “Dalla culla alla bara. Usi battesimali, nuziali e funerei nella provincia di Cuneo”.
Non è una lettura allegra, lo si vede sia dalla copertina (che è una ristampa degli anni Settanta), sia dal titolo. In più l’Euclide era comunque uno studioso di provincia degli anni Venti (a me fa una tenerezza immensa quando dice di non riuscire a tenersi aggiornato con gli studi perché i libri appena usciti non arrivavano in biblioteca). I suoi scritti mantengono un tono didattico e moraleggiante che appesantiscono il testo, senza contare la visione ingenua del “buon montanaro” simile al buon selvaggio (in questo post potete capire quanto fosse difficile in realtà la vita in alta montagna). …ma leggendo tra le righe, ecco Euclide mi regala sempre la stessa grande soddisfazione che provo quando posso ascoltare una persona anziana, cui il tempo ha regalato saggezza, un po’ di disincanto e un po’ di nostalgia. Detto questo sono anni che ho fissato nella testa questo aneddoto che Euclide ha raccolto a Ferrere (o Ferriere), in Alta Valle Stura. Un po’ perché ho vissuto di persona quelle immense nevicate che ovattano per giorni i suoni e la vita, un po’ perché Ferrere è sempre nel mio cuore (essendo cresciuta in montagna, sono sempre andata in vacanza in montagna, ma un po’ più in alto: così a Ferrere ci torno ogni estate), comunque alla fine questo racconto mi sembra perfettamente calzante al momento che tutti stiamo vivendo impauriti e sigillati nelle nostre case. Mi sono sempre chiesta cosa voleva dire perdere il senso del tempo, aggrapparsi alle scorte di cibo consumate per cercare di scandire il passare dei giorni. Non dico di saperlo ora, perché senza fare paragoni ridicoli noi siamo chiusi in casa, e abbiamo davvero tutto il necessario, e anche molto di più per attraversare questo periodo. Però ecco, il senso di spaesamento, quel chiedermi troppo spesso che giorno è oggi? Mi fa sentire ancora un po’ più vicina agli abitanti di Ferrere d’inizio secolo. Come loro, mi salva il pane!
«Narrerò a questo proposito, un aneddoto singolarissimo che ho raccolto nell’alta valle Stura presso il confine con la Francia, nel luogo di Bersezio. In una valletta che s’asconde di là dai monti sorgenti sulla destra della Stura, a m 1900 sul mare, sta un villaggio chiamato Ferriere, sulla strada mulattiera che da Bersezio sale appunto al colle del Ferro, pel quale si accede alla valle francese della Tinea. È un misero ma pittoresco gruppo di capanne, tutte insieme raccolte presso una bella chiesuola da poco edificata e perciò avente essa sola un aspetto men rozzo e selvaggio: campi di orzo, di segala, di lenticchie e di patate, insieme col numeroso bestiame e coi lauti guadagni che derivano dal contrabbando, fan sì che quei montanari possano vivere in una certa agiatezza. Ma quando col mese di Settembre l’inverno precoce discende e tutta la montagna si copre di neve, essi si chiudono nelle loro stalle, ed ivi consumano a poco a poco le provviste raccolte nella buona stagione: tra queste il pane, che han fatto cuocere tutto in una volta, allorquando era men facile provvedersi di grano altrove, era di tre tipi diversi, che si smaltivano uno dopo l’altro: primo il reciaucìs, fatto solo di orzo e perciò il meno atto ad essere conservato, secondo il reciauciàs, che per essere di orzo e segala poteva già conservarsi più a lungo, ultimo l’artùn che era tutto di segale e serviva per la restante stagione fino al nuovo raccolto. Or avvenne, non è gran tempo – e il ricordo ne è vivo ancora presso i Berseziani – che gli abitanti dell Ferriere, essendo caduta abbondantissima neve, si videro preclusa l’unica via di comunicazione che avessero con il mondo, cioè la strada mulattiera scendente dalla loro valle a Bersezio; e per giunta nel succedersi delle brevi giornate invernali, tutte uguali e monotone inerti, sprovvisti com’erano di orologi e di calendari, o trascuratone l’uso, perdettero anche la nozione del tempo. Si trovarono così a mezzo l’inverno senza sapere se il Natale fosse già stato o dovesse venire ancora: avevano già consumato i primi due tipi di pane, che dovevano appunto servire fino a quella ricorrenza, ma non erano certi d’averla già sorpassata o raggiunta. Mandarono pertanto uno di loro, il più coraggioso e valente, verso Bersezion, a chiedere notizie: e quando questi, percorso un buon tratto della strada fra mille stenti, giunse in vista del capoluogo sonnecchiante giù in basso in riva alla Stura gelata, prese a gridare con tutta la forza dei suoi polmoni:
– Gent d’Berses, cura sun calendas? (O gente di Bersezio, quand’è il Natale?)
I Berseziani che l’udirono gli risposero a gran voce: – Celendas sun già passàs! ( il Natale è già passato!).
– Es a co – disse allora il novello troglodita uscito dalla sua tana – es a co ch’aven già mangià il reciaucìs e il reciauciàs! (e per questo che abbiam già mangiato il reciaucìs e il reciauciàs!) .
Euclide Milano, Dalla Culla alla Bara, 1923.
L’ARTUN
(pane di segale)
Questo è un pane di segale moderno e adatto al forno di casa, praticamente la versione aggiornata del Pan Barbarià tipico delle vallate cuneesi già comparso su questo blog. In generale con l’indicazione “pane di segale” si intendeva un pane nero con un’alta percentuale di farina di segale. Le difficoltà della panificazione con questa farina (scarso glutine, quindi scarsa lievitazione) erano comunque ben note a tutti i montanari, che quindi o coltivando nel campo un misto di segale e grano, o dove l’altitudine non lo permetteva con scambi di formaggi, cercavano di avere sempre una percentuale di farina di grano da aggiungere all’impasto per migliorare gusto e conservabilità. Come dice sempre una vecchietta del mio paese, il pane nero di un tempo, cotto una volta all’anno e tanto duro da doverlo tagliare con la scure e sbriciolarlo nel latte, oggi non lo mangerebbe più nessuno. Insomma, questo è un’ottimo pane dei nostri tempi, gustoso e ricco di sapore (modificate a piacimento la percentuale di farina di segale fino a 300 g per un pane nero, oppure scendete a 100 per un pane più chiaro). Sono consapevole che l’artùn di Ferrere era probabilmente un’altra cosa, ma questo è uno dei casi in cui della ricetta filologicamente corretta mi importa davvero poco, mentre reputo più importante il fatto che si conservi la memoria di una parola tanto significativa e bella la comunità di Ferrere, isolata e dedita al contrabbando aveva sviluppato una variante particolare di dialetto).
Il mio pane è fatto con segale bianca (ovvero non integrale) per questo è più chiaro del normale, usando la farina di segale integrale non cambia nulla, anzi il gusto sarà ancora più ricco e rustico. Per ottenere un sapore quanto più simile ai pani di segale del passato, facendo come detto un compromesso con i tempi della modernità, l’ideale è il lievito in polvere fatto con un misto essiccato di pasta madre e lievito di birra (la proporzione è di solito 70% a 30%). Io lo trovo in bustine del Molino Rossetto, in una busta più grande della stessa marca, oppure della Marca d’Osa Coop (lo produce lo stesso Molino Rossetto, ma forse costa un po’ meno). Questo tipo di lievito suscita sempre infinite polemiche nel web perché in realtà la pasta madre essiccata non ha alcun potere lievitante, di conseguenza queste bustine sono accusate di essere l’ennesima confezione di aria fritta con sopra una parola associata dai consumatori all’idea di naturalità. Ora io non entro nel merito, ma vi spiego perché le uso e mi piacciono: la pasta madre essiccata regala al pane una struttura aromatica incredibile, che esalta perfettamente le note acidule degli impasti con farina di segale. In sostanza se non volete accudire e usare il lievito madre, ma volete un pane particolarmente gustoso, queste sono un’ottima soluzione. Aggiungo ancora che in alcuni negozi super forniti trovo anche queste buste del Molino Spadoni, di sola pasta madre essiccata, quindi ripeto non lievitanti, che quindi vanno unite al lievito di birra (in questo caso per questa ricetta usate 5 g di lievito di birra disidratato + 10 g di pasta madre essiccata, cioè una busta).
Ingredienti:
250 g farina di segale
250 g farina di frumento 0
370 ml di acqua tiepida
35 g di lievito di pasta madre (composto dal 70% di pasta madre essiccata e 30% di lievito di birra)
8 g di miele acacia
5 g di sale
Procedimento:
-Misurare i 370 ml di acqua tiepida. Metterla in una tazza e sciogliervi il miele.
-In una ciotola capiente mescolare le due farine il sale e il lievito. Aggiungete poco a poco l’acqua tiepida mescolata con il miele e cominciare a mescolare delicatamente con una forchetta. Man mano aggiungete tutta l’acqua. Quando si è formata una prima “palla” di impasto rovesciare l’intero contenuto della ciotola sulla spianatoia leggermente infarinata e finire di impastare il composto a mano.
-Fare riposare l’impasto coperto per circa tre ore in un luogo caldo, al riparo da spifferi o correnti d’aria (coprire la ciotola con un panno, oppure con pellicola per alimenti). Trascorse le tre ore rovesciare l’impasto sulla sulla spianatoia e allargarlo/appiattirlo un poco con le mani sgonfiandolo gentilmente, fino a fargli assumere una forma rettangolare. A questo punto fare due volte tre pieghe, cioè il rettangolo di pasta va piegato in tre parti, appiattito di nuovo con le mani, girato di 90° e ri-piegato in tre. Questo procedimento è molto più facile a dirsi che a farsi: guardate bene la foto, e il mio post it giallo: capirete in un lampo come fare. Con questo sistema di pieghe si struttura bene l’impasto e il pane crescerà meglio!.
-Accendere il forno e portarlo a 220°circa.
-Fare riposare l’impasto per altri 20 minuti circa, poi dividere la pagnottella in 4 spicchi.
-Stondare appena gli spigoli dei quattro panini nell’incavo della mano, spolverizzare con un po’ di farina di grano tenero e metterli sulla placca da forno che userete per cuocerli.
-Infornare, e dopo i primi 10 minuti a 220° abbassate il forno a 180°. Proseguite la cottura per altri 30/35 minuti, infine sfornate il pane (se è cotto bene battendolo alla base con le nocche deve suonare sordo).
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Thea dice
Grazie, per il racconto prezioso e per l’argomento. Pane e panificazione in questi momenti ci riunisce e ci da’ l’occasione di risentire nelle nostre case profumi e sapori antichi.
Proverò sicuramente questa ricetta.
Betulla dice
Grazie mille cara Thea, in effetti hai proprio ragione: la panificazione in questo momento è ancora più preziosa del solito…sono contenta che tu abbia colto lo spirito di questa mia condivisione! A presto…e grazie del commento!
zia Consu dice
Che post meraviglioso…mi hai colpita al cuore!
Betulla dice
Grazie mille cara Consu…ci tenevo a condividere questa lettura in questo momento! Come sempre grazie per il commento!