Cari Amici, per prima cosa vorrei ringraziare tutti quelli che hanno partecipato alla serata del 22 marzo nella biblioteca di Valdieri: la chiacchierata golosa è stata per me molto divertente, e tutti i presenti sembrano aver gradito i miei sproloqui sulle connessioni tra letteratura e cucina. L’entusiasmo è tale che ho pensato di fare qualche post a tema da condividere anche qui! Ovviamente questo è un piccolo e lento blog di cucina, quindi non entro nel merito dell’opera di queste grandi autrici, ma affronto (nei limiti del possibile) solo gli aspetti culinari e gastronomici!
***
Virginia Woolf era una donna piena di contraddizioni. Esattamente come tutte le donne e come tutti gli uomini del mondo. Ma a differenza di tutti noi Virginia Woolf era anche una straordinaria scrittrice, e metteva volentieri tutte queste contraddizioni su carta. Lettere, diari, romanzi, articoli e saggi ci restituiscono i sussulti di un’anima complessa (e in costante divenire), che non teme di tornare sui suoi passi, di ricredersi, di emozionarsi, di cambiare idea per “essere” davvero, per crescere, migliorarsi e “vivere”!
Tra le contraddizioni che più saltano agli occhi di chi legge oggi i suoi scritti ci sono sicuramente i suoi rapporti ondivaghi con il cibo e con la servitù! Sull’argomento si sono versati fiumi d’inchiostro: esistono numerosissimi saggi sulla cucina di Virginia, sul cibo nei suoi romanzi, e anche sulle sue tormentate relazioni con i sottoposti (anzi le sottoposte), verso le quali alternava slanci di entusiasmo e umanità a sprezzanti pregiudizi di classe. Esiste addirittura un romanzo intero, scritto dalla giallista spagnola Alicia Giménez-Barlett, che ripercorre la vita di Virginia e del gruppo di Bloomsbury, visti attraverso gli occhi di Nelly, la domestica di casa Woolf, alla quale ovviamente era negata la famosa “stanza tutta per sè” (il lavoro si basa su una noticina realmente presente nei diari di Virginia, che vedeva nella sua cameriera Nelly una specie di personaggio letterario: «Se questo diario non l’avessi scritto io e un bel giorno dovesse cadere nelle mie mani, cercherei di scrivere un romanzo su Nelly»).
In ogni caso, posto che il rapporto di Virginia con il cibo era minato dalla malattia mentale di cui soffriva (nei periodi di crisi qualunque “nutrimento vitale” la disgustava) e posto che da femminista, progressista quale era mal sopportava l’affollato apparato (ormai obsoleto) di servitù utilizzato normalmente per governare una casa, quello che mi preme sottolineare è l’incredibile lucidità, spesso autoironica, con cui Virginia cercava di affrontare queste difficoltà di donna in bilico tra le più banali necessità domestiche e la sua bruciante vocazione alla letteratura. Ma soprattutto io vedo in lei una costante, ferrea volontà di migliorarsi, di cambiare, di progredire verso la parte migliore di sè. È curioso leggere tutto questo, non nelle sue celebri opere, ma nelle sue ricette, nel suo “percorso culinario”. Eppure, sono convinta che anche questi dettagli minimi e gustosi rivelino la grandezza di questa mente luminosa!
Virginia, nata Stephen nel 1882, proveniva da una tipica, numerosa, famiglia vittoriana della medio-alta borghesia londinese. Gli Stephen si consideravano una famiglia di condizioni modesta, sempre alle prese con difficoltà economiche, eppure quando Virginia era piccola, solo nella tetra cucina di Hide Park Gate si affaccendavano ben sette persone, tra cuoche e cameriere. La Virginia bambina e adolescente mangiava bene solo se assistita dalle domestiche, perché non amava servirsi da sola né tagliarsi il cibo. Ovviamente questo rapporto di dipendenza totale comincerà presto a fare a pugni con le idee socialiste di una donna che inseguirà l’autonomia per tutta la vita. Infatti poco a poco crescendo Virginia comincerà ad interessarsi personalmente al cibo, alla gestione della cucina, delle provviste e delle cuoche. Fino a che, negli ultimi anni della sua esistenza si dedicherà con fervore a ristrutturare completamente la cucina della sua amata residenza di campagna Monk’s House (nel villaggio di Rodmell, tre miglia a sud di Lewes, nell’East Sussex, in Inghilterra) nella convinzione che una cucina moderna e al passo con i tempi potrebbe renderla autonoma e slacciarla per sempre dal tormento e dalla presenza del personale di servizio. Infatti frigorifero, acqua corrente e nuovi fornelli permetteranno finalmente a Virginia e Leonard di vivere bene semplicemente con una ragazza che lavora in casa poche ore al giorno. Per il resto i due se la cavano benissimo senza altri aiuti. «Felicità è essere senza cuoca» scrive Virginia.
E pensando alla condizione privilegiata in cui era nata questa agognata libertà è una conquista incredibile e rivoluzionaria, al pari della celebre e già citata “stanza tutta per sè”: uno spazio essenziale per ledonne che vogliono scrivere/vivere.
Come ho detto Virginia in vita ha scritto davvero tantissimo, e a sua volta nel tempo la sua vita e la sua opera sono continuo oggetto di studio. Lo stesso si può dire del gruppo di Bloomsbury, che non smette di affascinare per la sua eccentricità meravigliosa: ognuno dei componenti del gruppo, ha lasciato produzioni e lavori importanti in diversi ambiti artistici. Ma ci sono scritti anche dei figli, dei nipoti, della servitù che hanno testimoniato con biografie, interviste, memorie su questo cenacolo bizzarro di grandi menti. In tutta questa sterminata quantità di scritti (quasi impossibile leggere tutto e venirne a capo) mi ha colpito tantissimo un ricordo di Louie Everest Mayer, cuoca di casa Woolf dal 1934 sino al 1969 (quindi sino alla morte di Leonard, molti anni dopo il suicidio Virginia avvenuto il 28 marzo del 1941):
«In cucina c’era una cosa che la Signora Woolf faceva molto bene: del bel pane.
La prima domanda che mi fece quando arrivai a Monk’s House fu se sapevo farlo. Le dissi che lo avevo fatto per la mia famiglia, ma non ero abilissima. “Verrò in cucina, Louie” disse “a mostrarti come si fa. Noi ci siamo sempre fatti il nostro pane”.
Fui sorpresa di quanto fosse complicato il processo, di quanto accuratamente la Signora Woolf lo eseguisse. Mi mostrò come fare l’impasto con le giuste quantità di lievito e di farina e poi come impastarlo. Ritornò tre o quattro volte durante la mattina per impastarlo ancora. Infine diede all’impasto la forma del Cottage Loaf e la mise in forno alla giusta temperatura.
Direi che la Signora Woolf non era una persona pratica – per esempio non sapeva cucire, o lavorare a maglia, o guidare la macchina – ma questo era un lavoro che sapeva sempre fare bene. Mi ci vollero molte settimane per diventare brava a fare il pane quanto la Signora Woolf».
Il Cottage Loaf è un pane rustico e di campagna tipico del sud dell’Inghilterra. Sembra che la sua forma molto curiosa sia dovuta allo strattagemma di cuocere due pagnotte sovrapposte per risparmiare spazio durante la cottura nei forni a legna. In realtà non è un pane molto facile da realizzare, perché se l’impasto non è ben lievitato, e non è abbastanza solido per “sostenere” la pagnotta superiore, questa rischia di staccarsi e scivolare di lato in forno. Insomma fare bene un Cottage Loaf non è cosa da poco, ancor di più per una persona “poco pratica” che ha trascorso la maggior parte della sua vita senza saper “cuocere un uovo”. Per questo mi sono convinta che se Virginia Woolf fosse un cibo sarebbe senza dubbio questo pane, il nutrimento per eccellenza, faticoso da preparare, sofisticato eppure semplice e gustoso. Un cibo simile alla scrittura, nelle difficoltà e nella sua felice riuscita!
Come scriveva Marguerite Yourcenar:
«Il Pane non è mai lo stesso. E c’è anche quello che non viene. D’inverno, ad esempio, qui fa troppo freddo; si fa molta fatica a far lievitare il pane, a meno di surriscaldare la cucina come un forno. Non si è mai sicuri che riesca. E vi sono degli stadi che ricordano in tutto e per tutto la scrittura. All’inizio, qualcosa di informe che si appiccica alle dita: una poltiglia. Poi la poltiglia diventa via viva più soda, più consistente, e c’è un momento in cui diventa elastica. Infine, l’istante in cui si sente che il lievito ha cominciato ad agire: la pasta è viva. Non c’è più che lasciarla riposare. Ma se fosse un libro, il lavoro potrebbe durare dieci anni».
Bibliografia:
– Sandra Petrignani, “La scrittrice abita qui”, Neri Pozza, 2002.
– Stefania Aphel Barzini, “La scrittrice cucinava qui”, Gribaudo, 2011.
– Elisabetta Chicco Vitzizzai, “Alla Tavola di Virgina Woolf”, Il Leone Verde, 2006.
– Alison Light, Mrs Woolf &the Servant”, Penguin, 2008.
– Alicia Giménez-Barlett, “Una stanza tutta per gli altri”, Sellerio, 2009.
– Francesca Orestano, “Virginia Woolf and the Art of Cooking”, In Democratic Highbrow. Bloomsbury between Elite and Mass Culture. Eds. M. Lops, A. Trotta. Milano, Mimesis, 2017.
– Clara Jones, “Virginia Woolf 1931 “Cook Sketch”, in “Woolf Studies Annual” (n.20 del 2014).
– Jans Ondaatje Rolls, “The Bloomsbury Cookbook: Recipes for Life, Love and Art”, 2014.
– Lauren Rich, “A Woolf at the Table: Virginia Woolf and the Domestic Dinner Party” in “Gastro -Modernism”, 2019.
– AtlasObscura: “Virginia Woolf Baking Cottage Loaf”
– BloggingWoolf: “Virginia Woolf, her cook, and the love of food”
La ricetta del Cottage Loaf che segue è liberamente ispirata a:
-Christine Ingram e Jennie Shapter, “Il pane fatto in casa”, DIX edizioni, 2016.
-Paul Hollywood, “La magia del forno. 120 deliziose ricette di pane, brioche e dolci”, Gribaudo, 2013.
COTTAGE LOAF
Ingredienti:
430 g di farina bianca
70 g di farina di segale integrale
10 g di sale fino
9 g di lievito di birra secco (una bustina di “Mastro Fornaio” Paneangeli)
30 g di burro morbido a temperatura ambiente
300 ml circa di acqua
Farina 00 extra per impastare oppure olio extravergine di oliva
Procedimento:
1.Setacciare la farina bianca in una ciotola capiente, poi unire anche quella di segale e mescolare rapidamente le due farine con una forchetta. Mettere da un lato della ciotola i 10 g di sale fino, e dall’altro il lievito secco. Al centro mettere il burro morbido, e versare parte dei 300 ml di acqua. Iniziare a impastare rapidamente con una forchetta o con la punta delle dita…man mano che la farina assorbe acqua unirne altra fino a circa 300 ml (in realtà la quantità di acqua necessaria varia a seconda delle farine usate, quindi per ottenere un impasto compatto potrebbe volercene un po’ meno o un po’ di più).
2. Infarinate leggermente la spianatoia di legno e rovesciateci il composto (se come me avete una spianatoia in acciaio ungetela leggermente senza infarinarla). Trasferita la pasta sulla spianatoia impastatela energicamente per circa dieci minuti sino a che non si sarà ammorbidita ed avrà una consistenza omogena, liscia e setosa. Ungete bene la ciotola in cui avete cominciato ad impastare e trasferiteci la pasta. Fatela lievitare per circa 2 ore e mezza coperta da un panno di stoffa privo di odori in un luogo ben riparato da correnti d’aria fredda e spifferi (l’impasto deve raddoppiare di volume).
3. Trascorso questo tempo trasferite nuovamente l’impasto sulla spianatoia, sgonfiatelo facendo uscire l’aria con la pressione del palmo delle mani, poi modellate la pagnotta (per farlo allargate con i palmi la pasta come se fosse un rettangolo grossolano, ripiegate i lati più corti verso il centro, girate sottosopra la forma e con l’incavo della mano arrotondare la pasta sino ad avere una palla liscia). A questo punto dividete la pasta in due parti, una deve essere il doppio dell’altro. Arrotondate nuovamente con pazienza le due porzioni di pasta, poi posizionate la parte più grossa come base e appoggiateci sopra quella più piccola. Infarinate bene indice e medio della vostra mano e infilateli al centro della pagnotta senza però bucarne la base. Ora con una lametta per pane o con un coltello molto affilato fate dei tagli in verticale sul bordo delle due pagnottelle sovrapposte. Con delicatezza mettete la pagnotta su una teglia foderata con carta da forno. Copritela nuovamente con il panno in cotone e fate lievitare per un’altra oretta
4. Accendete il forno impostandolo a 200° circa. Cuocere il pane per 35/40 minuti, o comunque fino a che battendo la base con le nocche delle dita non udirete un rumore sordo. Fate raffreddare su una gratella!
Questo pane si conserva per diversi giorni morbido e fragrante se conservato in un sacchetto di carta o di plastica idoneo al contatto alimentare (l’ideale per me è tagliato a fette, leggermente scaldate nel tostapane, poi spalmate di burro e marmellata di more, che tanto piaceva alla cara Virginia)!
Lascia un commento